Questo blog ospita la tesi discussa il 19 maggio 2006 alla Scuola Superiore di Counseling di Torino. Il titolo della tesi è quello del blog. Ogni post è un capitolo. Sarebbe ovvio cominciare con l’introduzione, ma l’introduzione la troverete nel commento a questo post, che conterrà invece il primo capitolo.

Uno dei ricordi più vividi della mia infanzia mi vede nella stanza che al tempo condividevo con mio fratello; nel ricordo però sono sola, la musica di accompagnamento è quella dello Zecchino d’Oro, a volte cantata da me, altre ascoltata da un 33 giri di vinile. Sono sola e, insieme alla musica, l’unico altro elemento del gioco è un palloncino di quelli che negli anni Sessanta a Torino si vendevano quasi solo in occasione del Carnevale in piazza Vittorio. Ricordo che lo portavo a casa (quello del ricordo è bianco, ma ce ne devono essere stati molti altri) e per un giorno il palloncino non si scostava dal soffitto se io non mi aggrappavo al filo e lo tiravo giù. Non era quello però il gioco. Il gioco poteva avvenire soltanto il giorno dopo quando, persa una sufficiente quantità di elio per via del calore nella stanza, il palloncino cominciava a scendere e presto non sarebbe più stato in grado di volare.

Quello era il mio momento.

Per un tempo che adesso mi appare di ore e ore (avevo una grande capacità di restare sola da bambina e una concentrazione quasi autistica su gesti ripetitivi attraverso i quali la mia mente si ampliava, viaggiava e raggiungeva dimensioni che i giochi condivisi mi precludevano), giocavo cantando e rivolgendo al palloncino frasi di incoraggiamento mentre con la mano lo sospingevo verso il soffitto, insegnandogli nuovamente a volare.

È stata la mia prima “esperienza” di insegnante, ed era diversa da quando a casa del nonno (di nuovo per ore e ore in solitudine) “correggevo” cataloghi con la matita rossa e blu, giocando alla maestra. Col palloncino c’era la musica e la dimensione aerea, c’era l’incoraggiamento e non la stigmatizzazione degli errori, c’era il movimento e non l’immobilità che legava la brava bambina al tavolo della cucina di adulti che avevano senz’altro scordato come si fa a giocare, e forse anche a chiacchierare.

Figlia di un’insegnante che aveva rinunciato alla carriera, e probabilmente alla vocazione, per amore e ubbidienza a convenzioni di un’Italia post bellica, sono cresciuta con un ritornello nelle orecchie: che quello dell’insegnante è il più bel mestiere che ci sia per una donna, perché permette di coniugare scuola e famiglia (non nel caso di mia madre, evidentemente); così non ho fatto l’hostess (volare doveva essere un grande amore per me) come avrei voluto adolescente, non ho seguito le orme di mio padre a cui forse non sarebbe dispiaciuta una figlia manager, ma finita l’università ho fatto l’insegnante, o meglio la supplente, per un paio d’anni.

Fare la supplente non è la stessa cosa che fare l’insegnante, soprattutto a ventitre anni con l’apparecchio sui denti. È un lavoro che assomiglia molto di più al babysitting anche se i baby hanno dai 14 ai 20 anni, usano lo skateboard in classe e spengono le sigarette sulle mani dei compagni.

Il ricordo del mio primo giorno di scuola si spegne in un attacco di bile nella notte: il vomito nero che mai prima avevo conosciuto, e neppure dopo. Non erano stati i ragazzi a procurarlo, anche se la prima volta in classe mi aveva dato non poca agitazione. Dovevo supplire per quindici giorni a inizio d’anno un docente di tedesco non ancora nominato, ma contemporaneamente si era assentato il collega di inglese, e quindi mi ero trovata davanti una classe spaccata a metà, due lingue diverse, nessun libro e nessuna intenzione da parte dei ragazzi di fare lezione davanti a una appena ventenne, con la qualifica da film per soli adulti di “supplente di lingue”.

Ero fiera però di essere riuscita a contenerli, di aver evitato che usassero lo skate in classe e che si arrampicassero alle sbarre che chiudevano le finestre del piano terra per impedir loro di uscire da quella parte (un sistema non troppo illuminato alla fine dei progressisti anni Settanta per tenere gli allievi in classe, ma era una zona molto difficile della città).

Il trauma infatti mi aveva attesa a pranzo quando, raccontando le mie peripezie, ricevetti una paternale dai miei genitori. La mia mamma ex insegnante (in una scuola parrocchiale di sole ragazze nei primi anni Cinquanta) mi intrattenne sui suoi metodi efficaci per mantenere la disciplina. Mio padre (amministratore delegato di successo, ma che non aveva mai insegnato neppure un’ora) mi indottrinò su come avrei dovuto condurre quella lezione. L’entusiasmo del “primo giorno di scuola” naufragò in un profondo senso di inadeguatezza. Di lì l’attacco di bile.

A distanza di anni ho imparato ad apprezzare la preoccupazione con cui il giorno dopo mio padre mi annunciò che, qualora avessi ancora avuto reazioni di tale intensità, mi avrebbe impedito di tornare a insegnare; sul momento però la presi come una sfida. Avrei dimostrato loro di cos’ero capace. E così da 25 anni racconto come un fiore all’occhiello di quella volta in cui, sì e no un mese dopo, nel laboratorio linguistico mi si è avventato contro, con coltello a serramanico aperto, l’allievo a cui avevo dato una nota per aver insultato il tecnico di laboratorio (che, spaventato, affermava di non aver sentito nulla e si rifiutava di accompagnarlo dal preside) e di come sia stata salvata dall’unica ispezione dell’Ufficio di Igiene a cui abbia assistito in ventisette anni di scuola.

Poco dopo l’episodio del tentato accoltellamento, la supplenza nel liceo di barriera finì e io andai ad insegnare per il resto dell’anno nel liceo linguistico privato che avevo frequentato fino a quattro anni prima. I licei linguistici pubblici erano ancora da venire, e negli anni Ottanta la popolazione scolastica di quelli privati era, come tuttora nella maggior parte delle facoltà di lingue, composta per almeno l’80% di ragazze, mediamente tranquille, mediamente “di buona famiglia”, mediamente “non problematiche”. In una classe però, la popolazione maschile, nella figura dell’unico elemento, sembrava racchiudere in sé tutti i problemi che le sue compagne non evidenziavano. Era un quindicenne biondo, dai tratti morbidi che contrastavano con il personaggio che aveva creato. Un giorno mi aveva portato un libro fotografico sui ragazzi di stadio, e mi aveva mostrato con orgoglio la foto che lo ritraeva  mentre sugli spalti brandiva una catena. Altre volte nell’intervallo mi aveva offerto a mo’ di merendina della droga leggera. Poco più grande di lui, interpretai questi segni come una richiesta d’aiuto. Convocai, separatamente, i genitori separati ed entrambi si trovarono straordinariamente d’accordo sul fatto che sarebbe stato meglio che io badassi agli affari miei e non a quelli del loro figlio.

Anche quella supplenza finì e l’anno dopo mi trovai a condurre i laboratori d’inglese pomeridiani in una tormentata scuola media del quartiere Vallette, esperienza che mi convinse di non essere portata all’insegnamento della fascia d’età fra gli 11 e i 13 anni. Ad anno quasi finito, il giorno del mio compleanno, nella pagina di cronaca cittadina trovai un articolo che mise fine – e al tempo pensavo sarebbe stata una conclusione definitiva – alla mia carriera di insegnante: il mio allievo “problematico” dell’anno precedente aveva trovato la morte lanciandosi a tutta velocità a cavallo di una moto non sua, e che per l’età non avrebbe potuto guidare, contro un’auto condotta… da un insegnante.

Decisi che quel mestiere non faceva per me, provai altre strade e infine partii per gli Stati Uniti alla ricerca di una nuova specializzazione.

Ma mentre ero in California a studiare giornalismo, in Italia uscì il tanto atteso (non da me!) concorso a cattedre. Mia madre rispolverò la mai sopita vocazione e, con la complicità della mia amica del cuore e di un amico notaio, mi iscrisse al concorso. Tornando nell’estate mi scoprii impigliata nelle maglie concorsuali. Per la mia disciplina nelle scuole superiori del Piemonte c’erano 12 posti e 1500 candidati. Non avendo studiato nulla di specifico per il concorso ritenevo di non correre rischi. Da figlia obbediente sostenni le due prove scritte, e fui non poco sorpresa quando seppi che il mio nome compariva fra i 150 che erano passati all’orale. Sostenni la prova e la superai. Ma ero ancora tranquilla: non ero certo fra i 12 migliori candidati. Né andai in Provveditorato il giorno dell’assegnazione delle cattedre. Una telefonata mi annunciò che, per quanto io scappassi, la cattedra mi aveva raggiunta: sulle montagne che ancora non sognavano di essere olimpiche, in un istituto professionale per il turismo, c’erano cinque classi di ragazzi ad attendermi.

Piansi, e non di gioia.

Per più di tre lustri tentai di tutto per procurarmi una carriera alternativa. Adoravo i miei studenti – da quella prima classe di diplomati nel mio primo anno di ruolo (su undici studenti, due si laurearono poi in inglese e sono diventati entrambi insegnanti) a tutte quelle che erano seguite: negli istituti professionali, tecnici, per ragionieri, per geometri, diurni e serali – ma non volevo insegnare.

Così presi borse di studio all’estero, conseguii un Master in letteratura comparata, tradussi libri, mi diedi all’organizzazione di eventi culturali, mi tuffai nel volontariato, appena uscita la legge sul lavoro a tempo parziale ne approfittai… eppure in ogni tentativo di fuga mi ritrovavo sempre a insegnare: fiabe in U.S.A., traduzione in Italia, letteratura ai pensionati dell’Università della Terza Età, allattamento alle mamme,  you name it, I taught it!

Finché un giorno su un treno lessi un articolo che avrebbe cambiato la mia vita. Parlava del counseling, un mestiere nuovo nell’Italia sull’orlo del nuovo millennio, un mestiere che sembrava essere fatto apposta per me. Tra gli indirizzi consigliati, uno era proprio a Torino, proprio a due passi da casa mia. E offriva un corso di avvicinamento al counseling: tre incontri mi sono bastati a capire che quella era la mia strada. Invece dell’insegnante avrei fatto il counselor!

  

Assagioli e gli Appunti sull’educazione

 

Se un allievo mi chiedesse (è talvolta è capitato): Che cos’è la psicosintesi? potrei rispondergli che qualcuno ha detto che il termine psicosintesi è sinonimo di  processo di crescita personale. Ogni aspetto dell’universo tende naturalmente a ristrutturarsi a livelli superiori di organizzazione; negli esseri umani questo avviene, o può avvenire, a livello conscio, o meglio: consapevole[1]. La psicosintesi ritiene che ogni essere umano abbia in sé un enorme potenziale che di norma non viene riconosciuto e dunque non viene usato, e che l’essere umano possegga anche una saggezza interiore che gli permette di avere accesso al proprio potenziale. Roberto Assagioli[2] ha dato il nome di psicosintesi a questa visione dell’essere umano, al processo di crescita e agli strumenti per agevolarlo.

Potrei dire ancora al mio studente che Assagioli ci ha fornito una mappa della nostra psiche, della nostra consciousness, che in inglese ha un nome molto buffo, si chiama egg diagram

 

 

Proprio come un uovo, il nostro ovoide appare avere un contorno solido, ma in realtà il guscio è permeabile, così come la nostra psiche è permeabile a quello che Jung ha definito inconscio collettivo. Nel nostro uovo, siamo consapevoli di vivere nella stanza n° 4, il campo della consapevolezza: è quello che sento ora: la sedia sotto le natiche, i tasti sotto lo dita, la luce che illumina lo schermo, gli appunti alla mia sinistra… e una vaga sensazione nella zona dello stomaco che mi dice, se vi presto attenzione, che comincio ad avere un po’ di fame. Se cerco di capire come mai ho già fame a quest’ora, richiamo alla coscienza il fatto che ho saltato pranzo, e mi sposto così nella stanza n° 2, l’inconscio medio. Lì trovo tutto ciò che non è immediatamente presente alla mia consapevolezza, ma che posso facilmente richiamare, come il bel gelato che ho mangiato oggi al posto del pranzo e che ora ricordo in tutti i suoi colori, con il suo sapore e la consistenza morbida della crema e croccante del cono. Per sapere che cosa mi ha spinto a scegliere il gelato al posto del pranzo, il dolce al posto del salato, e che cosa significa il gelato per me, e in particolare il gelato diFiorio che mi ricorda quando…. be’, questo è l’ascensore che mi porta alla stanza n° 1,all’inconscio inferiore: non una stanza che amo particolarmente frequentare, eppure contiene molti tesori: sì, ci sono i ricordi traumatici e repressi, ma anche gli istinti e gli impulsi fondamentali (delle fondamenta), e le funzioni psicologiche elementari. C’è molta energia lì sotto, e proprio come i contatori nelle nostre cantine, bisogna imparare a farla funzionare a nostro favore. Anche in mansarda ci sono tanti tesori: la stanza n° 3 è quella dell’inconscio superiore o il superconscioche contiene le qualità più elevate della psiche ed è anche il recipiente delle nostre intuizioni. Per nostra formazione, anzi deformazione, culturale, tendiamo a pensare che tutto ciò che è “superiore” sia intrinsecamente migliore di ciò che è “inferiore”, per questo mi piace in modo particolare un’immagine dell’ovoide che non è proprio ortodossa, ma eloquente per illustrare il mio pensiero:

 

In quest’immagine quel punto di luce designato con il n° 6 che è il Sé transpersonale, sta tanto in alto quanto in basso, illumina tutto il nostro uovo, e si collega al punto n° 5, il sé personale, quel punto di noi che dice Io. E intanto che abbiamo menzionato il punto di luce, possiamo parlare anche della Stella di Assagioli:

 

La “stella delle funzioni”, o lo star diagram, ci mostra il rapporto fra le funzioni psichiche, la volontà e il Sé, la “fisiologia della psiche”. Qui l’io personale è descritto come il centro unificatore degli elementi psichici e la sua azione avviene attraverso l’uso di sensazioni, emozioni e sentimenti, impulsi e desideri, immagini, pensieri, e intuizioni. Ogni persona si affida in modo diverso a ciascuna delle funzioni, usando di preferenza questa o quella funzione. L’obiettivo che la Psicosintesi si propone è di equilibrare le diverse funzioni attraverso la volontà, the will. La volontà di Assagioli non è la forza di volontà, o lo sforzo di volontà che ci è stato insegnato o richiesto, per lui la volontà è “la funzione psicologica più vicina all’io”, ma soprattutto la qualità spirituale che si esperisce quando la nostra volontà personale si allinea con la volontà transpersonale e, a uno stadio ancora più elevato, alla volontà universale. È una volontà buona, saggia, gioiosa, che porta con sé molte qualità:

 

,       energia – dinamismo – intensità

,       dominio – controllo – disciplina

,       concentrazione – convergenza – attenzione – focalizzazione

,       determinazione – decisione – risoluzione – prontezza

,       perseveranza – sopportazione – pazienza

,       iniziativa – coraggio – audacia

,       organizzazione – integrazione – sintesi

 

Ho la sensazione che lo studente che mi aveva chiesto che cosa fosse la psicosintesi si sia ormai irrimediabilmente distratto, tanto vale che mi rivolga allora ai miei colleghi educatori, e a loro consiglio, qualora siano interessati a una descrizione puntuale di che cosa sia la psicosintesi, di leggere la scheda raccolta nell’Appendice, tratta dalla quarta di copertina degli opuscoli pubblicati dall’Istituto di Psicosintesi di Firenze fin da quando Assagioli ne era a capo.

 

 

Tutta l’opera di Assagioli può essere definita un’opera sull’educazione, ossia sul portare alla luce ciò che è nascosto dentro di noi, sull’attualizzare ciò che è solo potenziale. Un’opera quindi non tanto sull’educare latino (il tirar su, far crescere, allevare), quanto sull’educere, il trarre fuori, il far uscire, la maieutica di socratica e platonica memoria, l’arte di tirar fuori dall’allievo, di aiutarlo a mettere al mondo, pensieri suoi originali. In questa tesi, però, mi soffermerò soprattutto sul pensiero assagioliano riguardo all’educazione nella scuola. Nel suo saggio in lingua inglese del 1968, Notes on Education[3], osservando la profonda crisi che proprio in quegli anni aveva sconvolto le fondamenta pedagogiche della scuola nel mondo occidentale, Assagioli affronta alcuni punti chiave, alcuni problemi centrali nell’educazione dei giovani in età scolastica.

Il primo problema preso in esame è la risoluzione del conflitto fra lo sviluppo mentale e l’atteggiamento positivo – ovvero un atteggiamento che favorisca l’auto-osservazione individuale e l’auto-individuazione – da una parte,  e dall’altra la tensione verso l’unificazione che ha creato e crea un’eccessiva standardizzazione. L’obiettivo di un sistema scolastico saggio dovrebbe essere, secondo Assagioli, l’armonizzazione di queste tendenze contrastanti e l’uso costruttivo dei loro aspetti superiori:

 

Il crescente sviluppo intellettuale e l’atteggiamento positivo richiedono l’adozione delle migliori pratiche della “nuova educazione” per incoraggiare e dirigere l’attività indipendente e l’iniziativa dello studente. Allo stesso tempo, la tendenza opposta che porta all’unificazione può essere usata per approfondire le iniziative e le attività indipendenti nella collaborazione a progetti comuni. Ma si può fare molto di più, come dimostra il successo di esperimenti di educazione civica in numerose scuole dove attraverso l’auto-governo la scuola diviene un modello di città in miniatura.

 

A questo proposito Assagioli cita l’esperimento della Scuola-Città Pestalozzi di Firenze[4]evidenziando l’immenso valore che questo metodo ha per preparare i giovani alla vita sociale dell’adulto, come pure “le innumerevoli occasioni che esso crea di applicazioni pratiche del programma di studi che viene insegnato durante le lezioni curricolari. Le scelte, le decisioni e la responsabilità inerenti all’esercizio dell’auto-governo sviluppano alcune qualità essenziali della volontà e costituiscono la miglior specie di educazione alla libertà e alla democrazia.”

Integrando la descrizione dell’ambiente ideale per ogni istituto di educazione com’è stato proposto da Alice Bailey in L’educazione della Nuova Era:

 

  1. Un’atmosfera di amore in cui sia eliminata ogni paura.
  2. Un’atmosfera di pazienza in cui vengano rispettati i ritmi naturali e spontanei di sviluppo psicospirituale del bambino.
  3. Un’atmosfera di attività organizzata in cui il bambino sia impegnato a sviluppare il senso di responsabilità.
  4. Un’atmosfera di comprensione in cui i suoi impulsi e reazioni siano ben interpretati,

 

Assagioli aggiunge un altro elemento: un’atmosfera di gioia “che favorisca la cooperazione cosciente e inconscia degli allievi e che sia ‘dynamogene’ aiutando efficacemente la fuoriuscita di energie interne”[5]; e un grande ricorso all’umorismo, “quanto più sia possibile, e spesso lo è. Ciò che viene insegnato deve raggiungere l’inconscio ed esservi registrato chiaramente così da procurare una forte impressione ed essere facilmente richiamato alla mente. Tutte le cose noiose o non interessanti vengono rifiutate dall’inconscio che si rifiuta di registrarle, mentre tutto ciò che è divertente e che stimola altresì la curiosità è benaccetto e lascia un’impressione duratura.” Assagioli sottolinea però che l’atmosfera di cheerfulness, di allegria, non significa eccitazione o gaiezza incontrollata, quanto piuttosto una combinazione di armonia e buon umore.

Il buon umore è una delle dodici qualità dell’educatore ideale delineato da Assagioli, insieme a:

 

1.        attitudine democratica, ‘mettersi alla portata dell’alunno;

2.        bontà, rispettare l’individuo, la personalità;

3.        pazienza;

4.        vasti campi di interesse (curiosità intellettuale);

5.        aspetto e maniere gradevoli;

6.        giustizia e imparzialità,

7.        sense of humour;

8.        interesse per i problemi degli alunni;

9.        flessibilità, adattabilità;

10.     riconoscere gli sforzi ed incoraggiarli;

11.     capacità eccezionali in una branca particolare.[6]

 

Dedica grande attenzione poi all’aspetto integrale e a quello differenziale dell’educazione. L’educazione integrale si propone due scopi:

 

1.        Lo sviluppo equilibrato e armonico di tutti gli aspetti dell’essere umano: fisico – emozionale – immaginativo – mentale – intuitivo – volitivo – spirituale.

2.        L’integrazione di tutti quegli aspetti in una sintesi organica, in una personalità autocosciente e “costruita” (psicosintesi spirituale).[7]

 

L’educazione differenziale, invece, deve tenere in considerazione le diverse attitudini e i diversi stili di apprendimento delle differenti tipologie degli allievi. Ciò presuppone che “gli educatori abbiano anzitutto una chiara idea dei vari tipi psicologici esistenti e suppongano poi in qual modo ciascun tipo vada trattato.”[8] Solo conoscendo e rispettando il tipo psicologico di ciascun allievo, lo si potrà aiutare a raggiungere la più “armonica esplicazione” della sua natura, e a frenare “gli eccessi del tipo costituzionale”[9], armonizzando lo sviluppo delle qualità complementari.

Assagioli ha particolarmente a cuore il destino dei giovani “superdotati”, con il gergo scolastico attuale li definiremmo “le eccellenze”. Riconosce che la scuola non è attrezzata per rispondere ai bisogni di ragazzi particolarmente dotati in uno o più campi, che “in una classe ordinaria si trovano male e fanno del male.”[10] Non è raro infatti che questi stessi ragazzi appaiano ai loro insegnanti come problematici, svogliati, difficili da disciplinare. Negli appunti sull’educazione – catalogati dopo la morte dell’autore, insieme a tutto il materiale inedito, da Piero Ferrucci, raccolti nel volume Educare l’uomo domani da Milena Barbara, Alessandra Del Soldato e Margherita Passi Molinari, e pubblicati con l’introduzione di Andrea Bocconi – Assagioli presenta uno schema d’azione e un programma per la nascita del primo centro di educazione per superdotati, un centro ancora là da venire, anche se nella scuola attuale, pur sotto una forte spinta integrativa, si riscontra una maggiore attenzione alle, cosiddette appunto, eccellenze.

Altro argomento a cui Assagioli dedicò grande attenzione – pubblicando un saggio[11] che definì personalmente “rivoluzionario”, come lo è il metodo che in esso propone – è l’apprendimentodelle lingue. Assagioli considerava di fondamentale importanza la conoscenza di lingue straniere; lui stesso fin da bambino parlava, oltre all’italiano, il francese e l’inglese, e crescendo apprese anche il tedesco. Nel saggio, che anticipava i più recenti metodi per la didattica delle lingue, osservava quanto lo studio scolastico fosse inadatto all’uso che i giovani ne devono fare, ad esempio viaggiando all’estero, e sosteneva che la psicologia potesse offrire “la chiave per comprendere le ragioni della sterilità dei metodi tradizionali ed anche i principi sui quali basare metodi più efficaci e fecondi.”[12] Infatti la memoria, base della conoscenza di qualsiasi lingua, è una funzione dell’inconscio:

 

tutte le impressioni, che ci giungono dal mondo esterno per mezzo degli organi di senso, restano per un tempo brevissimo nel campo illuminato della nostra coscienza e poi si dileguano apparentemente nel nulla[13], sostituite da altre impressioni sensoriali, oppure dall’attività spontanea della nostra mente e delle nostre emozioni. Eppure tutte queste impressioni non si sono dileguate come un’ombra sopra la parete; in qualche modo, in qualche “luogo”, sono rimaste in noi delle tracce, le quali hanno il misterioso potere di far rivivere nella nostra coscienza le impressioni o le sensazioni originarie.

 

Quale può essere la soluzione affinché ciò che si impara di una lingua straniera non scompaia come un’ombra sulla parete, rifugiandosi in un luogo di noi stessi a noi, però, inaccessibile?  La risposta di Assagioli è “Imparare le lingue straniere nello stesso modo col quale abbiamo appreso quella materna, ritornando così ad essere come ‘piccoli bambini’”. Osservando che i bambini imparano la lingua madre quasi esclusivamente con l’inconscio, “senza ‘studiare’, senza fretta né preoccupazione”, Assagioli ci chiede di rimetterci il più possibile in uno stato simile

 

di pura recettività, di volenterosa assimilazione di quegli strani e divertenti suoni che udiamo, accogliendo con lieto sorriso ogni nuova impressione […] Tale fase di sola recettività dovrebbe continuare indisturbata finché non sorge spontaneo l’impulso a riprodurre i suoni uditi. Ogni tentativo prematuro di farli ripetere attivamente implica uno sforzo e una conseguente reazione dell’inconscio con conseguente spreco di energie e quindi un ritardo […] Invero ci sono dei ritmi psicologici che devono essere riconosciuti e rispettati. Lo scoprire questi vari ritmi in ciascuno di noi e l’intonarci ad essi costituisce una delle parti più importanti dell’“arte di vivere”.

 

Procedendo poi all’esame delle successive fasi dell’apprendimento, che coinvolgono la lettura e la scrittura delle lingue straniere, Assagioli prende in considerazione altri aspetti psicologici e consiglia alcune pratiche per facilitare l’apprendimento:

 

1.        l’efficacia e il fascino delle impressioni visive

2.        l’associazione di vari tipi di impressione

3.        la ripetizione e persistenza

4.        l’imitazione

5.        l’apprendimento sintetico

6.        i coefficienti estetici ed emotivi

 

All’inizio del terzo millennio, il primo punto non è certo più una novità, anzi, siamo sopraffatti da una cultura delle immagini, tuttavia possiamo usarla a nostro favore, o meglio a favore dell’apprendimento linguistico. Quando poi alle immagini vengono associate altre impressioni sensoriali “di genere diverso, […] strettamente associate fra loro, [si] creano tracce mnemoniche più profonde e più facilmente rievocabili.” Adotto spesso questo strumento. Per citare un caso: nel laboratorio interclasse pomeridiano di Inglese al cinema, che si basa sul principio dell’apprendimento “in scioltezza”, senza compiti a casa, né lezioni da imparare, stavamo vedendo il film di Martin Brest “Meet Joe Black – Ti presento Joe Black” (1998), un film che, oltre a fornire numerosi spunti per l’apprendimento della lingua inglese, si presta anche a considerazioni profonde sull’esistenza, e dunque è materiale utile per approfondire l’educazione spirituale, centrale al progetto educativo di Assagioli. In Notes on education egli scrive:

 

L’educazione spirituale ha due aspetti principali. Il primo concerne il significato, lo sviluppo evolutivo e gli scopi della vita. Questi sono assai più ampi e alti di quello che normalmente si considera […] Il significato e lo scopo della vita, e le meravigliose conquiste potenziali dell’umanità possono essere presentate a scuola, usando parole adatte alle diverse età degli studenti.

Il secondo aspetto dell’educazione spirituale si avvale della tendenza all’unificazione e alla sintesi per ampliare la prospettiva dei giovani e per spostare la loro attenzione dalla propria personalità egocentrica alla cooperazione, alla solidarietà e all’unione con gruppi sempre più ampi, finché tutta l’umanità ne verrà inclusa.

 

Il protagonista del film, la Morte, impersonato da Brad Pitt (in inglese è una personificazione maschile), scopre l’esistenza del peanut butter – il burro di arachidi che per generazioni e generazioni di americani è stato, ed è, il corrispettivo della nostra Nutella – e se ne innamora al punto di desiderarlo, proprio come un bambino, a qualsiasi ora della giornata e anche in alternativa a suntuosi buffet. In quell’occasione avevo portato con me un barattolo di peanut butter e diversi cucchiaini, affinché tutti i presenti lo potessero assaggiare. Il diversivo (proprio all’ora della merenda), e l’associazione sinestesica del gusto alle impressioni visive, ha lasciato un’impronta più profonda, e soprattutto è diventata un’esperienza reale.

E se la ripetizione, l’imitazione e l’apprendimento sintetico sono ormai entrati di diritto nella didattica delle lingue straniere, non sempre, anzi forse raramente, viene prestata la dovuta attenzione al coefficiente estetico ed emotivo. Assagioli racconta un esperimento “divertente e convincente”. Quando gli capitava di incontrare persone che manifestavano il desiderio di conoscere l’italiano e insieme la sfiducia nella propria capacità di riuscirvi, egli diceva loro che

 

non è difficile imparare le lingue e che, se non vi si riesce, la colpa va data ai metodi ordinari di apprendimento. Dicevo ai miei interlocutori che ero pronto a darne la prova sul momento, dimostrando loro che in un’ora essi avrebbero potuto comprendere e ripetere un sonetto di Dante. Questa asserzione dava loro una piacevole scossa emotiva, suscitava un vivo interesse, che costituivano un’ottima preparazione.

 

A questo punto recitava Tanto gentile e tanto onesta pare / La donna mia quando ella altrui saluta…, quindi trascriveva il sonetto e ne faceva una traduzione nella lingua dell’interlocutore. Poi ripeteva il sonetto chiedendo che venissero osservate le sue labbra, e lo faceva ripetere due o tre volte, correggendo, qualora fosse necessario, la pronuncia. “Il risultato era che essi si entusiasmavano per il fatto di conoscere la poesia di Dante; l’apprendevano facilmente a memoria e andavano a ripeterla a tutti quelli da cui riuscivano a farsi ascoltare.”

Oltre all’innegabile fascino che la poesia ha sull’essere umano, da quando piccolino ascolta incantato e impara a ripetere le filastrocche, Assagioli consiglia di introdurre nell’insegnamento “un altro interesse vitale: quello ludico e sportivo”, organizzando piccoli giochi e gare per stimolare un apprendimento più gioioso, “leggero” ed efficace.

Al metodo assagioliano per l’apprendimento – e non solo delle lingue straniere – “si possono apportare ulteriori differenziazioni e perfezionamenti, adattandolo ai vari tipi psicologici ai quali le diverse persone appartengono. Si possono usare tecniche speciali, adatte rispettivamente per i tipi visivo, uditivo e motorio, mentale e intuitivo.” Ma poiché in quella sede l’autore non poteva addentrarsi nei particolari, ho cercato nei suoi testi principali, e in quelli di altri psicosintetisti, nuove possibili applicazioni pratiche di ciò che la Psicosintesi ci insegna e ci permette di esperire.


[1] Nei nostri circle-time (cfr. p. ) ci siamo trovati a discutere della “coscienza” dell’universo, e a volte l’universo ci è parso più “consapevole” di alcuni esseri umani, o degli essere umani in alcuni momenti.

[2] (Venezia, 27 febbraio 1888 – Capolona (AR), 23 agosto 1974), psichiatra e pioniere del movimento psicanalitico in Italia, con la Psicosintesi ci ha fornito uno strumento di guarigione e di crescita che trascende l’analisi personale.

[3] Reperibile in rete all’indirizzo http://two.not2.org/psychosynthesis/articles/education.pdf. Laddove non sia diversamente specificato le citazioni dirette sono traduzioni mie di questo saggio.

[4] Molti anni prima dell’introduzione dei “decreti delegati”, che sono un pallido riflesso dell’auto-governo auspicato. La scuola è tuttora in funzione e se ne possono reperire informazioni all’indirizzo http://ospitiweb.indire.it/~fimm0011/start.htm.

[5] R. Assagioli, Educare l’uomo domani. Appunti e note di lavoro,  Istituto di Psicosintesi 1988, p. 17 e p. 93. Se dovessi scegliere una sola frase della psicosintesi educativa, questa è la frase che maggiormente ha illuminato, a ritroso, il mio cammino, poiché in tutti gli anni in cui ho insegnato prima dell’incontro con il counseling – quegli anni in cui agivo istintivamente ma senza le basi scientifiche o di approfondita ricerca personale – quando mi interrogavo su che cosa io fossi in grado di dare effettivamente ai miei studenti, l’unica risposta che riuscivo a trovare era: almeno per un anno (due anni, cinque anni) avranno trascorso tre ore alla settimana con un insegnante che testimonia la gioia.

[6] Ibidem, pp. 17-18.

[7] R. Assagioli, L’educazione dei giovani particolarmente dotati, Istituto di Psicosintesi, 1969.

[8] R. Assagioli, Educare l’uomo domani, p. 40.

[9] Ibidem, pp. 42-43.

[10] Ibidem, p. 97.

[11] R. Assagioli, Come si imparano le lingue con l’inconscio, Istituto di Psicosintesi, nuova edizione 1992.

[12] Ibidem, le citazioni seguenti, quando non sia specificato diversamente, sono tratte dall’opuscolo.

[13] Come ben sanno e lamentano gli insegnanti, le cui lezioni paiono talora non essere mai state ascoltate dagli allievi, pur presenti in classe!

 

Crescere con Piero Ferrucci
Piero Ferrucci[1], prezioso collaboratore di Assagioli, di cui, dopo la morte, ha catalogato tutto il materiale inedito; uomo che incarna, come ben illustra il suo libro più recente, la forza della gentilezza, ci ha consegnato un testo – fra i suoi importanti scritti, al tempo stesso profondi e divulgativi – che ci guida attraverso numerosi esercizi psicologici a esplorare le parti sconosciute della nostra psiche per “trasformare le emozioni negative, dare impulso alla nostra evoluzione personale e attingere alle nostre risorse creative latenti”.[2] Crescere (1981), questo il titolo evocativo e illustrativo del libro, ci accompagna in una vera avventura alla scoperta di una parte del nostro continente personale di cui inizialmente intuiamo a malapena i contorni, e sempre per difetto, come le antiche carte geografiche, dove il resto del mondo era liquidato con un hic sunt leones. Attraverso i primi semplici esercizi di evocazione sensoriale (visiva, tattile, olfattiva, cinestetica, del gusto, uditiva) cominciamo ad allenare l’attenzione, poi con l’aiuto del disegno libero, della visualizzazione, del movimento, sempre libero, o dello scrivere, ancora a ruota libera, possiamo facilitare lo scioglimento di blocchi psichici. A questo punto siamo pronti per l’esplorazione delle nostre subpersonalità. Noi ci pensiamo spesso come “un’entità monolitica e immutabile”, ma siamo invece “un miscuglio di elementi contrastanti e mutevoli”.[3] Come scrive Assagioli:
 
Non siamo unificati. Ne abbiamo spesso l’illusione perché non abbiamo vari corpi, varie membra, e perché una mano non picchia l’altra, ma nel nostro interno avviene metaforicamente proprio così; varie personalità e subpersonalità si azzuffano tra di loro continuamente: impulsi, desideri, principi, aspirazioni, ideali sono in continuo tumulto.[4]
 
Per conoscerci davvero dobbiamo scoprire chi sono le “persone” che ci abitano. Ferrucci ci propone un esercizio per fare amicizia con queste parti di noi. Per la fortuna dell’insegnante di inglese, ha egli stesso scritto una versione inglese del suo testo, dal titolo What we may be[5] (forse tratto da Shakespeare), di cui mi servo per proporre gli esercizi ai miei studenti:
 
 
RECOGNIZING SUBPERSONALITIES
 
Our job begins by recognizing our major subpersonalities; getting acquainted with them will take us a long way toward being able to control and ultimately harmonize their energies. The following exercise will introduce you to this concept in a more direct manner:
 
  1. Consider one of your prominent traits, attitudes, or motives.
  2. With your eyes closed, become aware of this part of you. Then let an image emerge representing it. It may be a woman, a man, an animal, an elf, an object, yourself in disguise, a monster, or anything else in the universe. Do not consciously try to find an image. Let it emerge spontaneously, as if you were watching a screen, not knowing what will shortly appear on it.
  3. As soon as the image has appeared give it a chance to reveal itself to you without any interference or judging on your part. Let it change if it tends to do so spontaneously, and let it show you some of its other aspects if it wants to. Get in touch with the general feeling that emanates from it.
  4. Now let this image talk and express itself. Give it space, so to speak, for doing so; in particular, find out about its needs. Talk with it (even if your image is an object, it can talk back to you; anything is possible in the imaginary world). You have in front of you a subpersonality – an entity with a life and intelligence of its own.
  5. Now open your eyes, and record in a notebook everything that happened co far. Then give this subpersonality a name — any name that fits and will help you to identify it in the future: the Complainer, the Artist, the Bitch, Santa Claus, the Sceptic, “Jaws”, the Insecure One, the Octopus, the Drunken Sailor, the Clown, “I Told You So”, and so on, Finally write about its traits, habits, and peculiarities.
  6. After you have identified and exhaustively described one subpersonality you can go on to the others. But take your time and work on each one alone until you feel finished. The process requires merely picking a few more of your prominent traits, attitudes, or motives and going through steps 1 to 5 for each one.[6]
A mano a mano che si procede con il riconoscimento delle proprie subpersonalità, cresce anche la consapevolezza della parte di noi che osserva i diversi aspetti della nostra psiche, quel sé che ogni mattina ci saluta al risveglio, ricordandoci chi siamo. Scrive Ferrucci:
 
Rendendosi conto della sua importanza fondamentale, parecchi psicologi hanno cercato di dare varie definizioni del sé (talvolta chiamandolo “ego” o, come facciamo anche noi, “io”). Il sé quindi è stato visto come il direttore della personalità, come il coordinatore del comportamento, come il punto d’incontro del conscio e dell’inconscio, oppure come la costellazione dei nostri atteggiamenti e stati d’animo più stabili; ancora altre concezioni lo descrivono come lo stile specifico di un individuo, come il risultato della nostra interazione con gli altri, come la totalità dell’organismo psicofisico, o infine come aggregato illusorio di elementi effimeri.
La psicosintesi tratta questo argomento con estrema semplicità, e vede il sé come la nostra essenza.[7]
 
Quando questa consapevolezza è acquisita (ma la psicosintesi è un processo continuo, che non ha fine, e la consapevolezza, come la conoscenza di sé, non fa che approfondirsi e affinarsi, potrei dire di giorno in giorno), quando l’essenza sa riconoscere almeno in parte le nostre varie subpersonalità – creative, divertenti e a volte infuriating – e sa, osservandole, distaccarsene, sa disidentificarsi per riconoscersi, almeno in quel momento, come un centro che ama e che vuole, e con esso identificarsi, possiamo allora cominciare, con vari esercizi, a lavorare sulla volontà. Questo lavoro aiuterà a scoprire “la propria autonomia personale al di là di ogni pressione interna o esterna”[8], diversi modi per incanalare e trasformare l’energia aggressiva e per direzionare la nostra energia, rinforzando gli elementi utili della nostra psiche e devitalizzando quelli inutili, e a diventare, a poco a poco, sempre più padroni della nostra mente. Ferrucci ci offre diversi esercizi per fare della nostra mente “uno strumento affilato e preciso”, attraverso la meditazione riflessiva che egli descrive come “essenzialmente padronanza dell’attenzione”.[9]
Molti degli esercizi proposti sono facilmente eseguibili in classe. Il filtro della lingua inglese permette a quei ragazzi che proverebbero imbarazzo all’idea di “star meditando”, di concentrarsi sull’elemento linguistico, sull’“esercizio”; per contro: proprio la tranquillità interiore e l’atmosfera di gruppo che si raggiunge durante l’esecuzione di un esercizio di visualizzazione permette un’acquisizione più intensa ed efficace degli elementi linguistici presentati. Come dire, l’intuizione di Assagioli sull’acquisizione inconscia della lingua straniera portata a un ulteriore livello di sintesi.
Molto utili sempre, e particolarmente nella fase adolescenziale quando il mondo si presenta più che mai polarizzato: io-tu, uomo-donna, destra-sinistra, noi-loro, amore-odio, piacere-dolore, sentimenti-ragione, gli esercizi di sintesi degli opposti. Riprendendo uno scritto di Assagioli[10], Ferrucci propone l’esercizio delle tre città, che consiste nell’immaginare a turno una città in cui prevalga uno dei due poli; nel suo libro egli prende ad esempio la città del gioco e quella del lavoro, ma ovviamente si può adattare a ogni polarità. Proviamo a camminare per le strade della città del gioco e ad osservarla evidenziandone sia i lati positivi sia quelli negativi. Andiamo poi a fare un giro nella città del lavoro, anche qui osservandone gli edifici e gli abitanti, i punti positivi e quelli negativi. Infine immaginiamo una terza città:
 
È un luogo di grande bellezza, dove il paesaggio è armonico, il clima è dolce e le costruzioni sono state abilmente integrate con la natura. Questa città ha le sue radici in una civiltà lontana, antica e dimenticata. Attraverso i secoli la gente ha sviluppato un modo di vivere a noi sconosciuto e molto più avanzato del nostro nella conoscenza della psicologia e delle sue applicazioni. Queste persone hanno studiato a fondo la psiche umana, e sono riuscite a migliorare la maniera di vivere e a creare individui in cui i vari aspetti sono uniti in una sintesi organica.
In particolare sono riusciti a conseguire una sintesi delle qualità migliori del lavoro e del gioco. Quindi gli abitanti di questa città agiscono con giocosità e impegno allo stesso tempo; amano la vita e godono del lavoro che fanno; sono efficienti ma anche aperti alla bellezza e al senso di meraviglia. Ancora una volta, incontratene alcuni, parlate con loro, guardate come sono vestiti, come mangiano, come lavorano, come pensano. Visitate la città, le case i teatri le chiese i musei le fabbriche gli uffici i ristoranti e via dicendo.[11]
 
Amo molto questa visualizzazione, perché la mia immagine della scuola è proprio una “città del gioco e del lavoro”, dove ci si applica con impegno, ma senza perdere il sorriso, ilsense of humour, l’elemento di sfida giocosa, e dove, al tempo stesso, giocando si impara e si lavora.
 
 
   


[1] Così si racconta nella breve biografia sul suo sito: Piero Ferrucci si è laureato in filosofia all’Univeristà di Torino nel 1970. Ha studiato con Roberto Assagioli, il fondatore della psicosintesi, e ha scritto vari libri: Crescere (Astrolabio), Esperienze delle vette (Astrolabio), I bambini ci insegnano (Mondadori) e, con Laura Huxley, The Child of your Dreams. Ha anche curato il libro The Human Situation, conferenze di Aldous Huxley. E’ psicoterapeuta. Vive con la sua famiglia vicino a Firenze.
[2] Adattato dalla copertina dell’edizione italiana.
[3] P. Ferrucci, Crescere, Artrolabio, 1981, p. 36.
[4] Ididem, p. 37.
[5] P. Ferrucci, What We May Be, Tarcher/Penguin, (1982) 2004.
[6] Ibidem, pp. 48-49.
[7] P. Ferrucci, op. cit., p. 49.
[8] Ibidem, p. 225.
[9] Ibidem, p. 89.
[10] R. Assagioli, L’equilibramento e la sintesi degli opposti, Istituto di Psicosintesi, (1967) 2003,
[11] P. Ferrucci, op. cit., p. 196.

Whitmore e Psychosynthesis in Education
Nel testo Psychosynthesis in Education, dal sottotitolo A Guide to the Joy of Learning, che si rivolge ugualmente a genitori e insegnanti, Diana Whitmore [1] afferma che l’educazione psicosintetica si pone come obiettivo “lo sviluppo e l’integrazione delle funzioni e delle qualità fondamentali dell’essere umano: fisiche, sensorie, emotive, immaginative, sociali, volitive, etiche, sociali, e transpersonali.”[2] Il lavoro che propone all’educatore e, congiuntamente, al bambino o all’adolescente, presuppone la volontà delle persone coinvolte a entrare in un’esperienza che può andare al di là della mente conscia:
Lo scopo di usare facoltà come sensazioni e sentimenti, immaginazione e intuizione, è trasformare l’apprendimento in un’avventura colma della profondità e della ricchezza che queste facoltà ci offrono. Il bambino o l’adolescente imparano più efficacemente quando tutto il loro essere è partecipe del processo educativo.
Confluent educationè il termine con cui designiamo l’integrazione o il confluire degli elementi cognitivi e affettivi nell’apprendimento individuale e di gruppo. L’aspetto affettivo si riferisce agli atteggiamenti e ai valori dell’esperienza dell’apprendimento: il desiderio che l’individuo ha di imparare, ciò prova quando impara e dopo che ha imparato, tutto concorre a formare la sfera affettiva. L’aspetto cognitivo fa riferimento all’attività mentale con cui vengono assimilate le informazioni. Ciò che l’individuo apprende e il processo dell’apprendimento rientrano nella sfera cognitiva. L’integrazione coerente di queste aree è essenziale ad una educazione significativa e pertinente, per un comportamento intelligente e maturo, e affinché l’individuo possa assumere un posto responsabile e creativo nella società. L’interesse principale degli educatori che si rifanno al concetto dellaconfluent education è educare il bambino alla vita, evocandone l’integrità che è suo diritto di nascita, e incoraggiandone la capacità di apprendere.[3]
La natura della confluent education è eminentemente esperienziale, e si avvale di differenti modalità di apprendimento che passano attraverso il corpo e le sensazioni fisiche, il mondo dei sentimenti, l’immaginazione e l’intelletto. Persone diverse hanno diversi stili di apprendimento, per questo alcune modalità saranno loro confacenti piuttosto che altre; sia nella pratica educativa individuale, sia in quella di gruppo – qual è la situazione scolastica – è dunque utile avvalersi di più tecniche, consapevoli che, per quanto ognuna di loro sarà produttiva, alcune saranno più efficaci di altre, in momenti diversi per persone diverse.
La prima tecnica che Whitmore propone è la mental imagery, l’immaginazione, convinta che “la più parte dell’apprendimento avviene attraverso l’immaginare ciò che si deve apprendere. Se la persona non riesce a concepire qualcosa nella sua mente, le sarà impossibile apprenderla in modo duraturo.”[4] Le immagini mentali sono la lingua naturale dell’inconscio, come scrive la psicosintetista canadese Martha Crampton, citata da Whitmore, “Esattamente come l’inconscio ci parla nel linguaggio delle immagini attraverso i sogni e le fantasie, possiamo parlare a quelle parti nascoste della nostra mente in quella ‘lingua dimenticata’ che è la sua lingua madre.”[5]Le immagini possono essere evocate, richiamate all’attenzione, e con l’esercizio i ragazzi “imparano a permettere alle immagini di formarsi nella loro mente in risposta a domande particolari.”[6] E poiché, come ha affermato Assagioli, ogni immagine contiene un motore o una tendenza e può produrre condizioni fisiche o atti esteriori che le corrispondono, così come solitamente viviamo condizionati dalle nostre immagini mentali, possiamo apprendere a ricondizionarle attraverso, ad esempio, visualizzazioni di simboli – potenti accumulatori di energia psichica –, per ottenere un riorientamento delle energie nella direzione desiderata.
Il disegno libero è una tecnica molto efficace con i ragazzi e i bambini. Può essere utilizzata semplicemente giocando con carta e colori, lasciando che le immagini emergano spontaneamente. Questo utilizzo è funzionale a liberare l’espressione di tensioni o sentimenti negativi, lasciando libero il campo della consapevolezza all’esperienza dell’apprendimento. Un altro modo di usare il disegno libero è invece quella di riprodurre un’immagine emersa durante la visualizzazione guidata. È molto importante che gli studenti comprendano che non si tratta di una lezione di disegno o di educazione artistica, anzi meno concorre “l’arte” nel disegno, meglio è, poiché l’aspetto importante è lasciare emergere la “libertà” dell’espressione.
Come con ogni tecnica esperienziale, è opportuno dedicare in seguito del tempo alla condivisione e alla discussione fra i partecipanti; ed è utile invitarli a condividere con il gruppo i propri disegni, descrivendoli a modo loro. Che cosa significano i colori? Sono chiari o scuri? Qual è lo stato d’animo e il tono del disegno? Fra le forme disegnate ce n’è qualcuna che sia simbolo di situazioni e sentimenti reali? C’è movimento o è statico? Qual è la comunicazione nascosta, o il messaggio, del disegno? Che cosa ti dice di te e della tua vita? Questo genere di domande porta alla sfera della consapevolezza gli insight che si stanno cercando.[7]
L’ultima tecnica proposta è la meditazione, “una forma interiore di azione”, preziosa perché contribuisce “allo sviluppo mentale, ad un più chiaro senso di sé e alla maturazione spirituale”, oltre a permetteredi superare i propri abiti mentali e le proprie idee preconcette, dando vita a nuove idee e intuizioni. “Inoltre, focalizzare la mente aiuta a rafforzare la volontà.”[8] In classe, secondo Whitmore, sono particolarmente efficaci tre i tipi di meditazione: la meditazione riflessiva, la visualizzazione simbolica e il silenzio. La meditazione riflessiva dirige l’attività della mente su un argomento particolare, del quale cerca di sviscerare tutti i possibili aspetti; persistendo nel “pensiero approfondito”, si giunge a conoscere l’argomento “dall’interno”. Due sono, a giudizio di Whitmore, le aree principali da esplorare attraverso la meditazione riflessiva:
1.        Le varie qualità transpersonali che desideriamo risvegliare o rafforzare in noi, quali il coraggio, l’amore, la fede, la serenità, la pace, l’allegria, la forza, l’apertura mentale, ecc.
2.        I pensieri seme: principi o idee che esprimono un concetto di particolare importanza per l’esperienza di apprendimento che si vuole favorire. Alcuni esempi si possono esprimere con una frase:
·         Siamo noi che creiamo la storia, o è la storia che crea noi?
·         Siamo il risultato dei nostri pensieri.
·         Ciò che ci fa cadere è anche quello che ci aiuta a rialzarci.
·         Il coraggio è la padronanza della paura, non la sua assenza.
·         Non sono le cose a crearci i problemi, ma l’opinione che abbiamo di esse.
·         L’esperienza non è ciò che ci accade, ma è l’uso che facciamo di quel che ci accade.
Un’utile variante di questa tecnica è scegliere un argomento o una preoccupazione di carattere sociale particolarmente interessante per il giovane, e riflettere sulle cause e sulle possibili soluzioni, ad esempio: la discriminazione razziale, la fame nel mondo, o il disarmo nucleare.[9]
La visualizzazione simbolica richiede al ragazzo di concepire immagini di grande impatto simbolico e dalle “proprietà rigenerative: una rosa che fiorisce, la scalata di una montagna, il bruco che diventa farfalla, la conversazione con una persona saggia e benevola, ecc.”[10] L’uso dell’immaginazione non è coltivato nel sistema scolastico, specialmente a livello di scuola secondaria inferiore e superiore, perciò questo genere di meditazione può essere particolarmente utile per contrastare l’atrofizzarsi di una facoltà così importante per l’essere umano.
Infine il silenzio: questa è una tecnica utilizzata da Maria Montessori e dalle scuole ispirate al suo metodo già all’inizio del secolo scorso. Non si tratta di un innaturale silenzio imposto, ma di un’educazione al silenzio operoso che è una delle caratteristiche innate dell’essere umano (basta pensare a un bimbo immerso nel suo gioco). La visualizzazione guidata può facilitare il raggiungimento di uno stato di silenzio ricettivo, e può servire da preparazione per poi gradualmente divenire in grado di raggiungere autonomamente quello stato.
Whitmore fornisce all’educatore alcune indicazioni per questi lavori esperienziali che, dopo qualche momento (settimana?) di iniziale timidezza e goffaggine, in genere sono ben accetti anche agli adolescenti. La prima è motivare i partecipanti, chiarendo lo scopo di ogni lavoro esperienziale che si sta per intraprendere; quindi dedicare qualche momento al rilassamento fisico, che favorisce l’efficacia e la godibilità dell’esercizio. La voce e il linguaggio con cui si guidano gli esercizi sono di particolare importanza, il tono deve essere calmo e melodioso, il linguaggio adatto all’età dei partecipanti. Talvolta è necessario rassicurare qualche bambino e ragazzo sulla qualità delle loro visualizzazioni: le variazioni individuali sono tantissime, c’è chi ha particolare chiarezza nelle proprie immagini mentali, e chi invece le percepisce piuttosto come ombre o suggestioni. Non c’è un modo “migliore” di un altro di immaginare. Alcune persone poi trovano più facile visualizzare con gli occhi aperti, altri con gli occhi chiusi: in linea di massima è più utile agli estroversi tenere gli occhi chiusi per non lasciarsi distrarre e perdere così la concentrazione, mentre i ragazzi fortemente introversi potrebbero avere problemi a tenere gli occhi chiusi. Il mondo dell’immaginazione non segue il principio di realtà, tutto è possibile all’immaginazione, e talora i ragazzi hanno bisogno di essere rassicurati a questo riguardo. L’atteggiamento di chi guida dovrebbe
essere incoraggiante e sostenere il partecipante. L’educatore può aiutare l’individuo a conquistare il mondo reale e quello dell’immaginazione, permettendogli la piena espressione della sua esperienza al di fuori dell’esercizio strutturato. Nella comunicazione interpersonale, la piena espressione dipende in parte dalla capacità dell’ascoltatore di dimostrare pieno apprezzamento e comprensione. La comprensione dovrebbe essere generale ed esplicita, dimostrata attraverso l’ascolto attivo e l’accettazione totale dell’esperienza del partecipante.[11]
Infine il radicamento dell’esperienza è di vitale importanza: “il tempo che segue l’esercizio è importante quanto l’esercizio stesso, altrimenti il lavoro esperienziale può fermarsi al livello di una consapevolezza inarticolata.”[12] Questo è il momento in cui ci si riappropria della mente analitica per comprendere le intuizioni e per progettarne l’utilizzo nella vita quotidiana. L’educatore deve incoraggiare il ragazzo a parlare e a discutere della propria esperienza, accompagnandolo nella costruzione del ponte che collega l’esperienza con la conoscenza di se stessi e della propria vita. In genere, se sarà l’educatore stesso a condividere la propria esperienza, anche gli altri partecipanti tenderanno a seguirne l’esempio. Può essere utile anche limitare la condivisione a piccoli gruppi (da due a sei persone), offrendo “l’opportunità di sviluppare capacità comunicative con i pari, e incoraggiando l’empatia e l’accettazione positiva.”[13] Spesso le persone scoprono con sorpresa che anche gli altri hanno vissuto esperienze simili alla loro, e questo può essere assai liberatorio.
Una parte del testo della Whitmore è dedicato alle tematiche tipiche dell’adolescenza, le sfide che i ragazzi devono affrontare per definire la propria identità: l’acuirsi del conflitto fra razionalità e sentimenti, l’emergere prepotente della sessualità con la pubertà genitale, la crescente indipendenza dalle figure genitoriali mentre la necessaria separazione da loro comincia a profilarsi all’orizzonte, l’auto-immagine in costante ridefinizione e con essa l’adozione di unaWeltanschaung e la scoperta dei valori ai quali si vuole aderire.
Da un lato l’autrice presenta la visione di Rudolf Steiner, il quale afferma che il ragazzo non è in possesso di un vero “sé”, nel senso comune della parola, finché non attraversa il tunnel della pubertà, e dunque Whitmore esorta a non incoraggiare una precoce ricerca di identità, ma piuttosto di dedicare attenzione alla crescita e allo sviluppo delle “tre funzioni principali: corpo, emozioni, mente.”[14] Il bambino che cresce, il ragazzo, si identifica con ogni fase dello sviluppo che attraversa, dunque la disidentificazione può essere avviata per mezzo dell’osservazione delle varie funzioni. Il primo campo di osservazione è quello delle sensazioni prodotte dalle condizioni fisiche in costante cambiamento: sto bene, sto male, sono stanco, teso, rilassato… Il secondo campo comprende l’osservazione delle emozioni e dei sentimenti, un territorio di difficile esplorazione particolarmente in un’età in cui gli ormoni offrono innumerevoli giri di giostra sull’ottovolante emotivo nell’arco della stessa giornata. Spesso è di sollievo scoprire che la propria identità va al di là delle emozioni che si provano, ed è particolarmente importante per gli adolescenti (ma non solo!) “imparare a coltivare la scelta tra essere pienamente immerso nelle emozioni e da esse controllato oppure identificarsi liberamente con una parte di se stesso, o ancora disidentificarsi con quella parte se costituisce un limite o non è appropriata.”[15]
D’altro canto Whitmore sottolinea il fatto che proprio nell’adolescenza i giovani sono più propensi a fare esperienza di quelle che Maslow ha definito peak experiences – le “esperienze delle vette” secondo Ferrucci – di natura transpersonale: “Tra queste esperienze troviamo spesso un più vivo apprezzamento della bella e della natura, il riconoscimento autentico di quanto ogni aspetto dell’esistenza sia interrelato, la consapevolezza dell’unione fra tutti gli esseri umani e la necessità di amare il prossimo. Queste esperienze spesso comunicano il significato e lo scopo esistenziale.”[16] L’educatore deve essere in grado di condurre il ragazzo anche attraverso l’esplorazione di questo aspetto della sua natura che, in termini psicosintetici, definiamo bio-psico-spirituale.
A questo proposito voglio citare il capitolo conclusivo del testo Psychosynthesis in Education, dal titolo “Educatore, conosci te stesso”[17], in cui viene affrontato il tema dell’“educazione dell’educatore”. La maggior parte degli educatori è consapevole che quello che veramente si trasmette ai figli, agli allievi, ai ragazzi non è ciò che si dice, e spesso neanche quel che si fa, ma ciò che si è. Il problema principale, però, è che i bambini e i ragazzi entrano soprattutto in contatto – anche se inconsapevolmente – con quelle parti di noi inconsce che entrano in gioco nella relazione a nostra insaputa. Ogni volta che uno studente suscita in noi un moto fortemente positivo o negativo, possiamo essere certi che il nostro inconscio è all’opera. In che modo? “Per comprenderlo – scrive Whitmore – dobbiamo esplorare quattro dimensioni: la natura dell’inconscio infantile; la natura del nostro inconscio e l’impatto che la nostra infanzia ha avuto su di esso; i nostri meccanismi di difesa; e le nostre aspettative che ineluttabilmente si avvereranno (self-fulfilling expectations).”[18]
Nonostante le visibili differenze individuali, l’inconscio di ogni bambino è fortemente influenzato da quello dei suoi genitori, dei suoi insegnanti e dall’ambiente in cui vive; secondo la psicologa junghiana Frances Wickes, citata da Whitmore, l’ego di una persona nell’età dello sviluppo è ancora troppo informe per essere in grado di proteggersi dall’invasione delle forze che si muovono nella psiche dei suoi educatori. Queste forze, che gli adulti cercano con ogni attenzione di ignorare, vengono intuite dall’inconscio del bambino e del ragazzo che ad essere reagisce. “Solo quando l’ego raggiunge un certo grado di integrazione cosciente si può spezzare questa influenza e la persona è in grado di esperire la libertà di scelta.”[19] Come le persone che educhiamo, anche noi abbiamo appreso come comportarci dai modelli della nostra infanzia, modelli comportamentali che tendiamo a ripetere, o ai quali tendiamo ad opporci accanitamente e spesso in modo inconscio. Personalmente, nonostante sei anni di psicoterapia e una tendenza innata all’auto-osservazione, avevo sempre considerato la mia simpatia per i “discoli” della classe e una minore tolleranza per i “secchioni” come la conseguenza naturale del mio passato di allieva un po’ monella, specialmente nella scuola media, passato che ha fortemente condizionato la mia auto-immagine “scolastica” nei trenta e più anni successivi. Solo di recente sono entrata in contatto con la mia parte “secchiona”, una parte apparente a chi aveva a che fare con me, ma a me del tutto ignota! Il risultato di questa presa di coscienza, o integrazione, è stato che le simpatie e antipatie basate sulla dicotomia discolo/secchione si sono “magicamente” sciolte come neve al sole. Il meccanismo di difesa proiettivo, evidentemente, non aveva più ragione di esistere.
Tre sono i meccanismi di difesa più comuni che Whitmore prende in esame: l’idealizzazione, l’identificazione e la proiezione. Anche per gli insegnanti più attenti a queste componenti è difficile non trovare nelle proprie classi un “allievo modello”. Senza necessariamente arrivare al punto di proporlo ai compagni come modello di comportamento, ci troviamo ad avere una forma di strabismo nei suoi confronti: nel mio caso è l’allievo del quale più mi sfuggono gli errori nei compiti in classe, (per contro mi sono trovata ad abbassare tanto regolarmente quanto inconsapevolmente il voto – anche in pagella – a un’allieva che peraltro mi stava molto simpatica, senza rendermi conto di come ciò potesse accadere).
Che cosa spinge l’educatore a idealizzare? Risponde Whitmore:
Se siamo riluttanti a riconoscere in noi qualcosa che ci crea insoddisfazione, troviamo in una fonte esterna la sicurezza che ci manca. Cerchiamo fuori di noi la personificazione della perfezione a cui tendiamo, sfuggendo così al doloroso confronto con le nostre insoddisfazioni e le nostre profonde insicurezze.[20]
Mentre è accettato e salutare che il bambino o l’adolescente si identifichi con gli adulti che considera i propri modelli, poiché attraverso l’identificazione con diversi modelli i ragazzi proseguono il proprio percorso verso l’auto-individuazione, non è consigliabile che l’educatore si identifichi nel proprio allievo. Una cosa è l’empatia, altro è cercare nel bambino conferma della nostra identità e del nostro valore. Spesso vediamo genitori che vivono vicariamente attraverso i propri figli: “oggi abbiamo avuto la verifica… dobbiamo fare la ricerca…” sono frasi piuttosto consuete fra i genitori che attendono i figli all’uscita da scuola. Aspettarsi che il figlio segua le nostre tracce, o che realizzi quello che a noi è stato negato, è un atteggiamento che gli insegnanti spesso riconoscono nelle famiglie dei propri allievi, ma raramente si è consapevoli di quanto noi stessi proiettiamo sui nostri alunni. Siamo pronti a riconoscere problemi e qualità nei nostri allievi, ma raramente ci chiediamo quanto ciò che osserviamo appartenga al ragazzo, e quanto invece sia l’effetto di una nostra identificazione o proiezione. Beauty is in the eye of the beholder, ha scritto Oscar Wilde, la bellezza è negli occhi di chi guarda. Una frase più facile da accettare del pensiero che “l’ombra è nell’inconscio di chi giudica”. Ci vuole molto coraggio per affrontare la propria ombra, ma è un’opera necessaria, soprattutto se desideriamo educare i nostri ragazzi alla Luce.
Un’ultima parola sulle self-fulfilling prophecies. Sono stati fatti diversi studi sul rapporto docente-discente, in cui agli insegnanti è stato fatto credere che alcuni loro allievi avessero quoziente intellettivo e capacità superiori a ciò che realmente possedevano. Non soltanto i voti degli allievi sono migliorati, ma il dato che ha colpito in modo particolare i ricercatori è stato che, a distanza di un anno, il Q.I. stesso dei ragazzi era aumentato, apparentemente perché il clima di accettazione che si era creato intorno all’allievo, e le aspettative più alte che il docente aveva nei suoi confronti, avevano influenzato il processo di apprendimento.
Nel Pigmalione di G.B. Show Eliza Doolittle dice ad un ammiratore: “La differenza fra una lady e una fioraia non sta nel come lei si comporta, ma nel come viene trattata.” Gli studi hanno anche dimostrato che il giudizio espresso da un educatore tende a seguire l’allievo e ad essere “tramandato” da docente a docente. Addirittura sembra che il nome di battesimo dell’allievo (oltre al colore della pelle, la classe sociale, la nazionalità) influisca sul giudizio che gli educatori si fanno di lui. E tutto ciò da parte dell’insegnante è prevalentemente, se non esclusivamente, inconscio. Come possono sfuggire a questi meccanismi gli educatori, che nella scelta stessa di questo mestiere impegnativo si dimostrano animati dalle migliori intenzioni? La risposta è una sola e l’aveva già data socrate: Γνωθι Σεαυτον, conosci te stesso.

[1] Allieva di Assagioli, counselor, educatrice, formatrice, presidente del Psychosynthesis & Education Trust, membro del Direttivo del Findhorn Foundation College.
[2] D. Whitmore, Psychosynthesis in Education, Destiny Books, 1986, p. 14, traduzione mia.
[3] Ibidem, p. 24.
[4] Ibidem, p. 25.
[5] Ibidem, p. 27.
[6] Ibidem, p. 28.
[7] Ibidem, p. 30.
[8] Ibidem.
[9] Ibidem. p. 31.
[10] Ibidem, p. 32.
[11] Ibidem. p. 35.
[12] Ibidem, p. 36.
[13] Ibidem, p. 37.
[14] Ibidem, p. 150.
[15] Ibidem, p. 152.
[16] Ibidem, p. 153.
[17] “Educator know thyself”, pp. 196-216.
[18] Ibidem, p. 198.
[19] Ibidem. p. 199.
[20] Ibidem. p. 203.

 

Alice Bailey e L’educazione nella Nuova Era
L’educazione va intesa come un continuo processo dalla nascita alla morte. È essenzialmente un processo che conduce alla riconciliazione degli elementi umani e divini nella formazione dell’essere umano. Le tecniche educative dovrebbero prefiggersi quale obiettivo prioritario il corretto rapporto tra Dio e l’uomo, lo spirito e la materia, il tutto e la parte.
Gli scritti di Alice Bailey sull’educazione[1], apparsi postumi in L’educazione nella Nuova Era,sono esoterici e, per me, di difficile comprensione. Ancora più difficile, al di fuori dalle scuole che si rifanno ai suoi insegnamenti, è trovare la possibilità di discuterne con colleghi educatori. Tuttavia ritengo che la Bailey abbia fortemente influito sulla mia visione dell’educazione, in primis poiché mia madre la studiava negli anni formativi dell’educazione mia e dei miei fratelli, e a ritroso posso osservare quanto i suoi metodi educativi si rifacessero alla filosofia a cui si era avvicinata. Quegli scritti che circolavano per casa, e i discorsi a tavola e la sera prima di coricarci, erano stati sepolti prepotentemente nella mia mente di adolescente un po’ ribelle, e laggiù hanno probabilmente lavorato per una trentina d’anni, fino a quando, frequentando la Scuola Superiore di Counseling, ho riscoperto su libri di vari autori quelle stesse idee che avevo cercato di allontanare dalla mia mente cosciente, ma che avevo messo in pratica, anche se maldestramente, nella mia attività di insegnante ed educatrice.
Alice Bailey, criticando l’impostazione nozionistica della scuola pre-riforma, sottolinea che lo scopo dell’educazione scolastica è molto più ampio che esercitare la memoria del bambino e far conoscere allo studente le conquiste (storiche, geopolitiche, intellettuali…) del passato.
L’educazione, ha tre obiettivi principali:
Per prima cosa – come molti hanno compreso – deve fare dell’uomo un cittadino intelligente, un genitore saggio, una personalità controllata; deve metterlo in grado di compiere la sua parte nel lavoro del mondo e farne un essere che sappia vivere in pace, in armonia con il suo prossimo e disposto ad aiutarlo.
Poi deve mettere la persona in grado di “colmare le lacune esistenti tra i vari aspetti della sua natura mentale”, ovvero i tre aspetti che Bailey definisce “mente concreta inferiore, principio raziocinante, cioè l’aspetto di cui si occupa il sistema educativo attuale” (ossia fino agli anni ’50), “l’Anima o Ego, di cui si è occupata la religione del passato”, e la “mente astratta superiore, custode delle idee […] il mondo delle idee che la filosofia professa di trattare.” I tre aspetti possono anche essere denominati:
Mente ricettiva, di cui trattano gli psicologi.
Mente individualizzata […].
Mente illuminante, o superiore.
In terzo luogo “l’educazione deve permettere di colmare la lacuna esistente tra la mente e l’anima […] Nell’età futura, l’educazione dovrà anche occuparsi di collegare i tre aspetti della natura mentale; l’anima con la mente inferiore e l’anima con la mente superiore.”
Insomma l’educazione, secondo Bailey, deve insegnare agli uomini e alle donne di domani a «costruire ponti» fra i tre aspetti della loro natura mentale. La vera educazione” è per conseguenza la scienza di collegare le parti integranti dell’uomo e di collegarlo, a sua volta, con l’ambiente e con quel «tutto» più grande nel quale deve compiere la sua parte”[2]. Ossia un’educazione che vede costantemente nel soggetto la sua dimensione spirituale, un’educazione civica dello spirito che ha lo scopo di formare una persona in grado di vivere secondo un modello ideale di leggi e principi[3]: prima di tutto, la “legge dei retti rapporti umani” che riguarda l’intelligente partecipazione alla vita sociale e si rifà al “principio di buona volontà”, laddove la buona volontà non è semplicemente una buona disposizione al prossimo o al proprio dovere, ma è l’uso di una volontà buona e saggia che ci permettere di trascendere i limiti dell’egocentrismo. Da ciò si può procedere alla “legge dell’attività di gruppo” secondo cui non è il vantaggio del singolo l’interesse principale, ma l’integrazione e la complementarietà dei partecipanti, basata sul “principio dell’unanimità”, da non confondersi con il concetto di uniformità[4]. Quando dai retti rapporti all’interno del proprio gruppo di interazione si passa a sperimentare l’unanimità di intento, anche attraverso piani di vita molto diversi, si può insieme verificare la “legge dell’avvicinamento spirituale”:
L’Avvicinamento Spirituale è la grande Legge dell’evoluzione, è la spinta incessante che trasforma il seme nel fiore e l’ovulo nell’uomo. È il grande fiume dell’Energia che scorre incessante e spinge la vita oltre se stessa, a creare il futuro di tutto ciò che esiste. In questo senso, è l’unico aspetto reale del processo del divenire e dobbiamo perciò superare il preconcetto che si tratti di un’aspirazione astratta, proprietà delle religioni e delle filosofie. È invece l’impegno, come è stato detto, di spiritualizzare la materia e di materializzare lo spirito, ed è pertanto nel concreto che l’evento si manifesta.[5]
Una legge basata su quel “principio della divinità essenziale”, che ci riporta al tema centrale dell’educazione secondo i principi presentati nell’opera della Bailey e fatti propri dalla psicosintesi educativa: “All’interno di ogni uomo c’è un nucleo di Energia potenziale, da evocare e manifestare nella vita quotidiana, che rappresenta la Scintilla divina che ci anima e ci spinge verso l’incessante processo dell’evoluzione”.[6]


[1] Alice A. Bailey, Education in The New Age, Lucis Trust (1953), tr. it. L’Educazione nella Nuova Era, Editrice Nuova Era (1966), 1981.
[2] Ibidem, pp. 27-30.
[3] AA. VV. Leggi e Principi della “Nuova Era”, Comunità di Etica Vivente.
[4] “unanimità deriva da ‘anima’ e significa avere la stessa anima; uniformità deriva da ‘forma’ e significa avere la stessa forma. […] L’unanimità di scopo permette diversità sia nei campi di manifestazione, sia nei modi e mezzi attraverso cui si giunge all’attuazione.” Ibidem. pp. 56-57.
[5] Ibidem. p. 69.
[6] Ibidem. p. 83.

Maharishi e il Consciousness – Based Education Program
Maharishi Mahesh Yogi è il fondatore e divulgatore della Meditazione Trascendentale (MT), detta anche Scienza dell’Intelligenza Creativa. La storia del movimento nacque nell’India del 1957, quando, spinto dal desiderio di offrire al mondo una tecnica per diffondervi la pace, Maharishi inaugurò il Movimento di Rigenerazione Spirituale che praticava e diffondeva la MT, e nel 1961 fondò a Rishikesh la prima scuola per insegnanti di MT. Nell’arco di quarant’anni ha costruito un’organizzazione che conta sedi in quasi tutti i paesi del mondo, compresa l’Italia. La Meditazione Trascendentale non è una tecnica indiana o induista, ma “rappresenta un meccanismo insito nel sistema nervoso di ogni essere umano, indipendentemente dalla sua cultura, nazionalità o stato sociale”. Per ottenerne benefici non occorrono adesioni di fede, né legami col maestro, è sufficiente praticarla con costanza e sistematicità secondo le istruzioni apprese. Un saggio presentato alla Facoltà di Scienze dell’Educazione dell’Università Pontificia Salesiana[1] ne dà in sintesi la dottrina sottolineandone l’aspetto educativo. A proposito delle intuizioni contenute nel testo fondamentale di Maharishi, La scienza dell’essere e l’arte del vivere[2], scrive l’autrice:
 “L’essere è eterno, immutabile nel Suo stato assoluto, ed è eternamente mutevole nei Suoi stati relativi”[3]. Quando Mahesh Yogi scrisse questo libro la scienza moderna non aveva ancora intravisto l’esistenza di un campo singolo ed universale alla base di tutti i fenomeni naturali. Dall’inizio degli anni ’80, però, i fisici teorici stanno focalizzando la loro ricerca sul Campo Unificato della Legge Naturale ed ora possiamo affermare che anche la scienza moderna ha intravisto il campo della pura coscienza. È affascinante osservare come le recenti descrizioni del Campo Unificato della Legge Naturale da parte dei fisici moderni corrispondono con grande precisione alla descrizione del campo fondamentale di coscienza. Nell’arco di dieci anni la progressiva evoluzione dell’esperienza dei meditanti ispira Maharishi a dare una visione dello sviluppo della coscienza che avviene attraverso l’esperienza di sette distinti stati di coscienza[4]
“Portare l’attenzione ai livelli più profondi della coscienza è la chiave per sperimentare una maggiore felicità”[5], questo è il principio fondante della Meditazione Trascendentale.
Maharishi dedica grandissima attenzione all’educazione promuovendo la MT non solo nell’Università da lui fondata, ma attraverso la Consciousness-Based Education Association [6]anche a tutte le istituzioni scolastiche che vogliano sperimentarne la pratica e gli effetti. Scrive ancora Barbieri:
[…] la qualità dell’istruzione è ciò che determina la qualità e il benessere in una società. L’attuale sistema di istruzione, tenendo conto dell’andamento della qualità della vita in tutto il mondo, non è organizzato per favorire il pieno sviluppo della componente creativa presente in ogni studente. Inoltre, il sistema scolastico attuale trascura l’insegnamento dei valori e le qualità che sostengono l’integrità e il progresso della società. Valori quali: l’autosufficienza, la salute, la giustizia, la compassione, l’ampiezza di vedute. Secondo John Goodlad senza una conoscenza approfondita del potenziale umano la società sarà sempre ostacolata dal “gap educativo: la distanza tra le più nobili visioni di quello che l’uomo potrebbe diventare e l’attuale livello di funzionamento”[7].
               Nel 1993 Maharishi Mahesh Yogi partecipò alla conferenza annuale dell’American Association for Higher Education definendo il problema dell’istruzione nel mondo e offrendo una possibile soluzione. Nel suo intervento egli sostenne che «ciò che manca dovrebbe essere evidente a tutti. Se esaminiamo il processo attraverso il quale si ottiene la conoscenza vediamo che la conoscenza ha due aspetti: l’oggetto della conoscenza e il soggetto della conoscenza, il conoscitore. Ciò che l’attuale sistema educativo fornisce è la conoscenza dell’oggetto quello che manca è la conoscenza del soggetto, la conoscenza del conoscitore»[8].
               Secondo Maharishi l’intelligenza creativa, presente in ogni studente, non viene utilizzata nella vita quotidiana e gli individui riescono ad esprimere solo il 5% o il 10% del potenziale mentale. Così come un albero diventa secco quando il suo collegamento con le radici si interrompe, la vita di un individuo diventa frustrazione, lotta e sofferenza quando il legame tra l’aspetto esterno della vita e quello interiore viene a mancare.
Negli anni ho potuto sperimentare gli effetti benefici della meditazione su di me e sui conoscenti che la praticano, tuttavia i risultati confortanti in termini non soltanto di integrazione personale, e qualità di vita, ma anche di risultati scolastici, percentuali di riuscita agli esami, e riconoscimenti ottenuti dagli studenti delle istituzioni che avevano partecipato al Consciousness-Based Education Program, mi ha convinto che ci siano le motivazioni, le ricerche scientifiche di supporto[9], e forse anche il momento storico per poter proporre questo strumento anche all’interno della mia scuola.

[1] di Carmen Barbieri, Nuovi movimenti religiosi: La Meditazione Trascendentale, Corso di specializzazione in Pedagogia Religiosa, Istituto di Catechetica, Università Pontificia Salesiana, luglio 2000, reperibile in rete all’indirizzo http://www.nonsoloreligione.it/dati/meditazione.rtf.
[2] Maharishi Mahesh Yogi, Science of Being and Art of Living, tr. it. La scienza dell’essere e l’arte del vivere, Astrolabio 1970.
[3] Ibidem, p. 24.
[4] R. Baitelli, La Meditazione Trascendentale di Maharishi Mahesh Yogi, a cura di E. Fizzotti e F. Squarcino, L’Oriente che non tramonta, Ed. LAS. Roma 1999, pp. 195-196.
[5] Maharishi , op. cit. p. 239.
[6] http://www.cbeprograms.org/
[7] J.I. Goodlad, A place called school, Mc Graw-Hill, New York, 1984.
[8] Maharishi Mahesh Yogi, Relzione tenuta all’Incontro annuale dell’American Association for Higher Education, Chicago, 1973.
[9] Più di 600 studi scientifici che documentano lo sviluppo olistico della vita attraverso i programmi di MT.

Thomas Gordon e il TET: Teacher Effectiveness Training
Ho incontrato il “metodo Gordon” quando facevo la consulente de La Leche League International[1] nei primi anni ’90. Al tempo eravamo solo in quindici in Italia, e ci occupavamo anche del training alle aspiranti future consulenti. Durante un weekend, avevo invitato da me la tirocinante che doveva sostenere il colloquio d’esame insieme al marito e al figlio di quattro anni. Un nuovo bebè era in arrivo e il fratellino manifestava tutti i comportamenti da manuale dei terrible four, con l’aggiunta della gelosia per il nuovo stato della mamma. Osservai durante tutto il fine settimana il comportamento dei genitori, una coppia franco-inglese, che si atteneva ai suggerimenti del Parent Effectiveness Training di Thomas Gordon, psicologo clinico formatosi con Carl Rogers:
  • Imparare a decodificare il comportamento non verbale del neonato per determinare cosa lo disturba. Se ad esempio il bambino piange, il genitore deve rispondere empaticamente, con altri segnali non verbali. (Gordon sostiene che è questa sorta di ascolto attivo che può far decidere alla mamma quando e come svezzare il figlio, non le varie teorie relative alle varie ricerche sull’età evolutiva che vorrebbero fissare dei paletti sulle regole, sulle metodologie, sulle età in cui è bene fare questo o quello);
  • Aiutare il bambino molto piccolo a sviluppare gradualmente le proprie risorse necessarie per superare la dipendenza dai genitori e per migliorare le capacità di risolvere i propri problemi autonomamente;
  • Rimanere autentici nei confronti dei figli, non convincersi che interpretare il ruolo di genitore significhi rinunciare alla propria umanità; non temere di mostrare i propri sentimenti e le proprie emozioni;
  • Rispettare la personalità dei figli per quella che è. Sentendosi accettati i figli potranno anche prendere in considerazione l’eventualità di un cambiamento, mentre il sentirsi non accettati porta solo ad una maggiore distanza. Questa accettazione può essere esternata con il linguaggio verbale, con i gesti, con l’ascolto, attivo e passivo;
  • Ma soprattutto, nel metodo Gordon è importante comunicare con i figli evitando le ‘Dodici risposte tipiche’ : dare ordini, minacciare, fare prediche, consigliare, insegnare, giudicare, elogiare, ridicolizzare, interpretare, rassicurare, inquisire, minimizzare. (Questo genere di messaggi comunicano al figlio che i suoi sentimenti o i suoi bisogni non sono considerati importanti; il non sentirsi accettato, il temere il potere del genitore, possono provocare in lui sentimenti di risentimento o rabbia che potrebbero portarlo a reagire in modo ostile, cercando in tutti i modi di resistere alla volontà dei genitori).[2]
Pensai a quanto nella mia pratica di genitore, e parimenti in quella di insegnante, ricorressero almeno sei delle dodici risposte “tipiche”: se riuscivo quasi sempre a risparmiarmi le prediche, se non era nella mia natura dare ordini, minacciare, giudicare, ridicolizzare e inquisire, facevo però largo uso di consigli, elogi, rassicurazioni, tendevo spesso a interpretare, e quando mi trovavo in difficoltà davanti al dolore altrui cercavo di minimizzare (o di rassicurare, che nel mio idioletto era “consolare”); e che dire poi dell’insegnare? Che c’è di male ad insegnare? Capii poi che Gordon (come altri pedagogisti ed educatori) distingueva fra un insegnare che è riempire di informazioni, pensare ai bambini e ai ragazzi come a recipienti da riempire, ed educare, ossia aiutare i bambini e i ragazzi a trarre da loro stessi e dall’esperienza gli insegnamenti di cui hanno bisogno per crescere e per attuare il loro progetto di vita.
Agli inizi degli anni ’90, cominciavano ad essere tradotti in Italia gli scritti di Gordon (pubblicati a nel mondo anglosassone una ventina di anni prima). Mi procurai i volumi Genitori efficaci eInsegnanti efficaci e fu il mio primo incontro con l’approccio centrato sulla persona di Carl Rogers.
Gordon indica come condizioni necessarie per lo sviluppo integrale della persona la congruenza, l’empatia e l’attenzione positiva e incondizionata, e propone come tecniche fondamentali per modificare i comportamenti inadeguati:
  1. l’ascolto attivo
  2. il messaggio in prima persona
  3. la risoluzione dei conflitti con il metodo del problem solving.[3]
Propone un modello (il Metodo III) per trovare il comportamento più efficace per affrontare i problemi che sorgono in classe e invita gli insegnanti a riflettere sui comportamenti che essi ritengono accettabili o inaccettabili in classe. Naturalmente anche per il singolo insegnante questo non si tratta di un modello statico: alcuni comportamenti risulteranno sempre accettabili o inaccettabili (nelle mie classi, per quanto mi riguarda, è sempre inaccettabile il ricorso alla violenza fisica o verbale, ed è sempre accettabile l’espressione delle proprie idee, emozioni e sensazioni se fatto con messaggi in prima persona), mentre la linea di confine tra comportamenti accettabili e inaccettabili si sposta a seconda che avvenga un cambiamento in se stessi (alle prime ore sono più riposata e dunque la mia disponibilità all’accettazione è maggiore rispetto alla sesta ora quando sono stanca, o per contro la stanchezza mi può rendere alcuni comportamenti più accettabili rispetto ad altri momenti); un cambiamento nell’altra persona, ossia negli studenti; o un cambiamento del contesto o dell’ambiente(nelle mie ore è sempre accettabile mangiare in classe durante l’intervallo, lo può essere talvolta durante la lezione, per esempio quando c’è stato un compito in classe prima e i ragazzi non hanno usufruito dell’intervallo, non lo è mai in laboratorio linguistico quando potrebbe danneggiare le apparecchiature).
Per questo Gordon sostiene che è di fondamentale importanza che l’insegnante si chieda di chi è il problema (owning the problem): chi danneggia questo comportamento? a chi impedisce di lavorare? Se la risposta riguarda l’alunno si interviene usando l’ascolto attivo, se invece riguarda l’insegnante si ricorre al messaggio in prima persona, il messaggio-io.
Gordon sostiene di poter affermare con una certa sicurezza che:
i conflitti tra insegnanti e studenti sono provocati soprattutto da tre condizioni: (1) quando non ci sono delle regole e delle norme di comportamento chiare; (2) quando le regole e le norme di comportamento non sono dichiarate apertamente e perciò sono difficili da capire o interpretare; e (3) quando le regole e le norme di comportamento sono imposte agli studenti dall’autorità degli adulti senza la loro partecipazione, specialmente se queste regole sembrano in giuste o immotivate. Per evitare dei conflitti, la scuola e le classi devono istituire dei procedimenti che coinvolgano gli studenti (e gli insegnanti) nel processo di definizione e decisione delle regole e delle norme di comportamento.[4]
Per questo consiglia di stabilire regole e norme di comportamento all’interno di un’assemblea di classe, dove nelle operazioni preliminari sarà esplicitato che né l’insegnante, né gli studenti di serviranno del loro potere per essere sicuri di ottenere solo le regole che preferiscono, ma lo scopo è la situazione Win/Win, cioè fare in modo che tutti siano soddisfatti delle decisioni prese in comune e che nessuno debba provare sentimenti di sconfitta.[5]
Che fare poi se gli studenti non rispettano gli accordi presi collegialmente? Gordon consiglia per prima cosa di inviare allo studente “un severo messaggio in prima persona che comunichi il proprio disappunto e le conseguenze negative dell’accordo non rispettato dallo studente”. Questo messaggio susciterà probabilmente un messaggio di risposta in cui lo studente chiarirà “il motivo per cui non ha potuto o non ha voluto rispettare l’accordo. In questo caso l’insegnante può decidere ad esempio se:
  1. Dare allo studente un’altra possibilità.
  2. Trovare qualche maniera per ricordare allo studente di mantenere e rispettare l’accordo.
  3. Ritornare al processo di risoluzione del problema e cercare di trovare una soluzione migliore – una che sia più facile per lo studente da rispettare.”[6]
Come fare poi se non si riesce a trovare subito una soluzione comune? Certo il processo è inizialmente lungo rispetto a un elenco di Do & Don’t forniti dall’insegnante, ma se si pensa al tempo che gli insegnanti perdono ogni giorno a cercare di fare rispettare le regole imposte, alla fine si risparmierà molto tempo prezioso, oltre ad aver promosso ulteriormente il processo educativo attraverso la scelta di obiettivi comuni e l’impegno personale e di gruppo affinché tali obiettivi siano perseguiti.

[1] La Leche League International è un’associazione di volontariato fondata nel 1956 allo scopo di fornire informazioni e sostegno morale alle donne che desiderano allattare i loro bambini al seno. È una NGO accreditata presso l’UNICEF e l’OMS. Attiva in 65 nazioni, conta 7.000 consulenti volontarie, madri che hanno allattato al seno i propri bambini e che hanno effettuato un percorso di formazione sia sugli aspetti fisiologici e psicologici dell’allattamento al seno, sia su tecniche di counseling per fornire prima di tutto ascolto attivo e poi le informazioni necessarie alle madri e alle famiglie che si rivolgono a loro.
[2] http://www.psicolinea.it/g_i/genitori_efficaci.htm
[3] Un utile compendio alle idee di Gordon si può trovare negli appunti di Maria Stella Scaramuzza per F. Tessaro, Psicopedagogia del linguaggio e della comunicazione – SSIS Veneto reperibile online all’indirizzo http://www.univirtual.it/ssos/sos%20400/2003/download/Area%20didattica/tessaro%20did%2005.pdf
[4] Thomas Gordon, T.E.T.: Teacher Effectiveness Training (1974) tr. it. Insegnanti efficaci. Il metodo Gordon: pratiche educative per insegnati, genitori e studenti, Giunti & Lisciani Editori, 1991, p. 226.
[5] Ibidem. pp. 226-229.
[6] Ibidem. p. 231.

   

Marianne Franke-Gricksch e le costellazioni famigliari a scuola
Durante il secondo anno della scuola di counseling ho incontrato le Costellazioni Famigliari secondo il metodo di Bert Hellinger[1], il primo a proporre questo modello sistemico sia come metodo psicoterapeutico, sia come strumento di risoluzione di blocchi e conflitti. Il metodo prevede la messa in scena di una situazione riprodotta da rappresentanti che ricreano le interdipendenze esistenti tra i componenti di una famiglia o di un gruppo, evidenziando le dinamiche inconsce che causano sofferenza in molti aspetti della vita: nelle relazioni affettive, nelle relazioni in ambito professionale, nel rapporto con il denaro e con la salute. Dapprima applicate all’ambito famigliare, le costellazioni hanno esteso la propria influenza anche in campo aziendale e scolastico, ovunque si prenda in considerazione l’individuo come parte di uno o più sistemi.
Nel percorso di formazione ho avuto l’opportunità di lavorare con Marianne Franke-Gricksch[2]e di sperimentare dal vivo l’applicazione “scolastica” del “metodo Hellinger”, di cui avevo letto precedentemente nella versione inglese del suo testo Du gehörst zu uns[3]. Il testo è un interessantissimo resoconto della esperienza di Francke-Gricksch insegnante e terapeuta in classe: illustra, con esempi tratti dalla sua pratica, come il pensiero sistemico consenta un apprendimento nuovo ed efficace ed incoraggi la cooperazione creativa fra gli studenti, gli insegnanti e le famiglie. Invece di considerare ogni studente come un individuo a sé, l’autrice ci invita a vederlo come parte della sua famiglia e dei diversi gruppi con cui interagisce, dimostrando la costante interdipendenza e l’influenza reciproca tra l’individuo e il proprio ambiente. I suoi esempi sottolineano l’entusiasmo con cui i ragazzi accolgono questo metodo di soluzione di blocchi e conflitti, ed anzi richiedano spontaneamente di poter mettere in scena una costellazione, senza attendere l’intervento dell’insegnante.
    
Non sentendomi pronta a interventi “terapeutici” all’interno della classe, ed anzi ritenendo che si tratti di due ambiti diversi e che la mia funzione di educatrice non debba confondersi con una funzione terapeutica, ho molto apprezzato la possibilità di partecipare ai corsi di Babylon – Il mio rapporto con le lingue[4], in cui l’approccio sistemico viene utilizzato per favorire l’apprendimento e l’uso delle lingue straniere. I seminari di Babylon si propongono come obiettivi:
  • analizzare da diversi punti di vista il proprio rapporto con le lingue;
  • individuare possibili radici di condizionamenti o blocchi nell’apprendimento nell’uso delle lingue, ed esplorare strategie per risolverli;
  • ampliare le proprie strategie di apprendimento;
  • modificare, qualora necessario, il proprio atteggiamento verso le lingue e favorirne l’apprendimento e l’uso.
Il Babylon Language Coaching è una combinazione di metodi sistemici sviluppata nell’ambito di un progetto di ricerca dell’Università Alpe-Adria di Klagenfurt, e propone una sequenza dinamica di lavori individuali e di gruppo attraverso i quali i partecipati possono affrontare il tema da diverse prospettive. Si ha l’occasione di trattare il rapporto con le lingue a sei livelli:
  1. La biografia: a questo livello si possono individuare gli eventi della vita passata che agiscono sul proprio rapporto con le lingue straniere ostacolandone l’apprendimento. Si può nello stesso tempo mettere a fuoco e valorizzare le proprie capacità e competenze al fine di sfruttarle al meglio nell’apprendimento.
  2. I contesti: si possono esplorare i contesti in cui si vogliono usare le lingue per trovare e creare occasioni che permettono di esercitarsi con piacere.
  3. La visione: si sviluppa un’immagine più chiara dei vantaggi che la padronanza di un’altra lingua è in grado di portare e si chiarisce quale livello di perfezionamento si può realisticamente raggiungere.
  4. I valori: a questo livello si può concentrare l’attenzione su aspetti e valori connessi alle culture con le quali si entra in contatto imparando nuove lingue. Allo stesso tempo si possono individuare eventuali (pre)giudizi che ostacolano l’apprendimento della nuova lingua.
  5. I processi di apprendimento e di comunicazione: si analizzano, ampliano e ottimizzano le strategie di apprendimento che permettono di usare al meglio le proprie risorse e competenze.
  6. La meta e la vita: si possono pianificare i passi concreti che possono portare alla padronanza delle lingue che si intendono imparare.
 
All’interno del seminario viene inoltre offerto al partecipante un Diario in cui vengono affrontati i diversi livelli:
·         Il mio tema: Qual è di preciso il mio problema con le lingue? Cosa non mi soddisfa? – Qual è il mio desiderio di oggi? Cosa voglio cambiare? – Da che cosa mi renderò conto di aver raggiunto la mia meta? Che cosa sarà diverso? – Quanto la mia attuale situazione soddisfa il mio desiderio? – In una scala da 1 a 10 quanto valuto, in rapporto al mio desiderio, la mia competenza linguistica relativa alla lingua che voglio apprendere? – Quale desiderio di competenza desidero raggiungere nella lingua che voglio apprendere? – Quanto valuto, in una scala da 1 a 10, il mio desiderio di raggiungere tale livello di competenza?
·         Le mie esperienze con le lingueA) La storia del mio rapporto con le lingue: Quando ho incontrato per la prima volta una lingua straniera? – Quali esperienze associo alla lingua con cui vorrei relazionarmi? (Il luogo dove sono cresciuto, i vicini, gli amici, la scuola, il lavoro, le ferie, i rapporti affettivi, i libri, le persone autorevoli…) – Quali esperienze significative associo alla mia lingua materna o paterna? – Quali lingue parlano o hanno parlato i miei genitori, nonni, fratelli? – Quali esperienze significative hanno avuto i miei parenti e avi con altre lingue e/o culture? –B) Risorse e ostacoli che provengono dalla mia biografia: Quali ricordi riferiti alla mia storia con le lingue mi suscitano sensazioni spiacevoli? – Come potrei descrivere queste sensazioni? – In quali situazioni attuali riemergono queste sensazioni spiacevoli? – Come reagisco in queste situazioni? – Quali ricordi riferiti alla mia storia con le lingue mi suscitano sensazioni piacevoli? – Come potrei descrivere queste sensazioni? Come mi comporto in situazioni che vivo piacevolmente? Quali comportamenti utili, capacità, risorse che ho sviluppato nel corso della mia vita potrebbero tornarmi utili nel rapporto con le altre lingue? – Quali comportamenti ho imparato nel corso della mia vita che mi ostacolano nel rapporto con le lingue? – C) Il triangolo delle mie risorse: Qual è la mia posizione attuale all’interno del campo circoscritto da: Fiducia (Amore / Estetica / Apprezzamento / Empatia) – Ordine (Etica / Struttura / Azione / Dovere) – Sapere (Logica / Chiarezza / Intuizione / Visione)? – Quale passo mi può aiutare ad avvicinarmi alle risorse che finora ho sfruttato e sviluppato meno?
·         L’ambiente e il contesto nel quale comunico: Quali strade nuove potrei percorrere verso il mondo della lingua che vorrei apprendere meglio?
·         Come vedo un mio nuovo rapporto con le lingue: La mia esperienza con il “Tango Linguae”[5] – La domanda del miracolo/della svolta[6].
·         I miei (pre)giudiziLe sensazioni che associo alle lingue – paesi – popoli. Per la madrelingua, la seconda lingua, la terza lingua, riportopercezioni (suoni, odori, sapori, immagini, sensazioni corporee), giudizi,sentimenti.
·         La costellazione “IO/la MIA lingua straniera (il mio inglese, tedesco…)/le persone con cui desidero comunicare in lingua: Che cosa caratterizza la MIA lingua straniera? – Che rapporto c’è tra la MIA lingua straniera e le persone con cui voglio comunicare utilizzandola? – Che rapporto c’è tra la MIA lingua straniera e la medesima lingua parlata dalle persone con cui voglio comunicare? – Come posso migliorare questo rapporto? – Quali passi sarebbero necessari per migliorare questo rapporto? – Quali altre considerazioni sono emerse dalla costellazione?
·         Le mie strategie di apprendimento: Qual è la mia posizione attuale: guardare, parlare, scrivere, gesticolare, ascoltare, leggere – Quali processi di apprendimento possono aiutarmi a sviluppare le competenze che desidero?
·         I miei obiettivi: Obiettivo, obiettivi intermedi, passi nell’apprendimento e relative scadenze.[7]
·         Simboli del mio percorso di scoperta: Un simbolo per ognuno di questi livelli: biografia, contesto, visione, valori, processi di comunicazione e apprendimento, obiettivi.
Questo materiale è un prezioso aiuto per lo studente di una o più lingue straniere per focalizzare il proprio rapporto con la lingua, e trovare stimoli, motivazioni e soluzioni creative al suo apprendimento. Quest’anno, come esperimento, mi propongo di usare i punti 1, 2, 3, 5 come compiti delle vacanze nella mia quarta, per poi inaugurare il nuovo anno scolastico – in quei primi giorni in cui mancano ancora i libri di testo nuovi e l’attività didattica è un po’ rallentata – con il “tango linguae” e la costellazione personale, quindi fare il punto della situazione e sviluppare gli ultimi tre punti nel corso dell’ultimo anno di scuola superiore.

[1] Nato nel 1925, ha studiato filosofia, teologia e pedagogia. È stato sacerdote per 25 anni dei quali 16 trascorsi come missionario tra gli Zulu in Africa. Successivamente divenuto psicoterapeuta ha integrato varie discipline: l’Analisi Transazionale, le Dinamiche di Gruppo, la Psicoterapia Famigliare Sistemica, l’Ipnosi ericksoniana e la Programmazione Neurolinguistica. Dal 1980 ha sviluppato il suo metodo fenomenologico e sistemico detto delle Costellazioni Famigliari.
[2] Nata nel 1942, dopo 25 anni di insegnamento nella scuola elementare e media, e una lunga esperienza parallela in psicoterapia (oltre che in Costellazioni Famigliari, si è formata in Terapia Primaria, Ipnoterapia, Terapia Breve, Trance e Naturopatia), ora guida seminari di terapia sistemica e di coppia, seminari di formazione per insegnanti, medici, terapeuti e operatori professionali, e anche gruppi di terapia sistemica insieme a ragazzi dai 16 ai 22 anni.
[3] tr. it. Tu sei uno di noi, Crisalide 2004.
[4] In particolare quello condotto da Georg Senoner e Giovanna Bonalume a Bergamo il 9-10 settembre 2005
[5] Esercizio dinamico in cui ci si muove nello spazio (una danza letteralmente) con un rappresentante che impersona la lingua che il soggetto ha deciso di prendere in esame.
[6] “A mezzanotte si realizza il miracolo, alla mattina qualcosa è cambiato, forse ce ne rendiamo conto prima di aprire gli occhi, forse dopo… Qual è il primo messaggio che ricevo?”
[7] SMART – Consigli per la formulazione degli obiettiviS: specificati in modo semplice e concreto. M: misurabili. A: azioni attraenti e motivanti. R: realistiche. T: Tempi.

 

Alexander Neill e I ragazzi felici di Summerhill
L’assemblea di classe per stabilire regole, ed eventuali sanzioni se queste non sono rispettate, era già stata proposta in modo molto più radicale da Alexander S. Neill[1], in quell’esperimento educativo che è Summerhill, la scuola da lui fondata in Inghilterra nel 1921 e diretta fino alla morte nel 1973. Zoë Readhead, figlia di Neill, allieva a sua volta e madre di quattro allievi di Summerhill, e ora nonna di due nipoti che frequentano la scuola, oltre ad esserne la preside dal 1985, è uscita vittoriosa da una lunga battaglia per dimostrare al governo britannico e alle autorità preposte al controllo della qualità nella scuola, che Summerhill, nonostante i suoi metodi radicali, risponde a tutti i criteri didattici, oltre che educativi, richiesti.
In attesa che la Open University Press pubblichi, il 10 maggio di quest’anno, la nuova edizione del testo originariamente edito con prefazione di Erich Fromm nel 1960[2], corredata da un ampio testo di Readhead sulla Summerhill del nuovo millennio, possiamo avvicinarci alla filosofia educativa di Neill leggendo il testo pubblicato dalla RED edizioni[3] dal sottotitolo il piacere di educare e di essere educati.
Summerhill è una boarding school, ossia una scuola in cui ragazzi dai cinque ai quindici/sedici anni vivono a tempo pieno, una sorta di collegio in cui sia gli allievi sia lo staff operano secondo i principi che caratterizzano il “metodo Neill”. La scuola si propone di:
• Fornire situazioni e opportunità che permettano ai bambini di svilupparsi secondo i loro ritmi e interessi. Lo scopo di Summerhill non è produrre dei tipi particolari di ragazzi con abilità o conoscenze accertate, ma piuttosto fornire un ambiente in cui i bambini possano definire chi sono e chi vogliono essere e diventare.
• Consentire ai bambini di essere liberi da giudizi obbligatori o imposti per poter ricercare i propri obiettivi. I bambini dovrebbero essere liberi dalla pressione di conformarsi ai criteri di successo basati sulle teorie predominanti in fatto di apprendimento e di riuscita accademica.
• Permettere ai bambini di essere completamente liberi di giocare quanto vogliono. Il gioco creativo e immaginativo è una parte essenziale dell’infanzia e dello sviluppo. Il gioco spontaneo, naturale, non dovrebbe essere sminuito dagli adulti o reindirizzato verso “esperienze di apprendimento”. Il gioco appartiene ai bambini.
• Permettere ai bambini di sperimentare la completa gamma di sentimenti svincolati dal giudizio e dall’intervento degli adulti. La libertà di effettuare delle scelte comporta sempre dei rischi e comporta la possibilità di esiti negativi. Apparentemente le conseguenze negative quali noia, stress, rabbia, delusione e insuccesso sono una parte necessaria dello sviluppo individuale.
• Permettere ai bambini di vivere in una comunità che li sostiene e di cui sono responsabili; in cui hanno la libertà di essere se stessi, e il potere di cambiare la vita comunitaria attraverso il processo democratico. Tutti gli individui creano i propri valori basati sulla comunità all’interno della quale vivono. Summerhill è una comunità che si fa carico della propria responsabilità. I problemi vengono discussi da tutti i membri della comunità e l’opinione di adulti e bambini, al di là dell’età, ha pari dignità in questo processo.[4]
L’obiettivo non è quindi quello di “produrre” ragazzi con determinate conoscenze ed abilità da immettere nella società e nel mercato, ma quello di “educare un bambino lasciandolo libero di manifestare le sue emozioni, decidere sulla sua vita, svilupparsi secondo il suo ritmo naturale. crescere più felice senza i timori e le coercizioni degli adulti”. Scriveva Neill: “Preferisco che da Summerhill esca uno spazzino felice, piuttosto che un Primo Ministro nevrotico”. D’altronde, com’ebbe a dire Martin Luther King: “If a man is called to be a street sweeper, he should sweep streets even as Michelangelo painted, or Beethoven played music, or Shakespeare wrote poetry. He should sweep streets so well that all the hosts of heaven and earth will pause to say, here lived a great street sweeper who did his job well.”[5]
Questa scuola, nata come ambiente e processo di recupero per ragazzi “difficili” (ma Neill affermava che non esistono ragazzi difficili, solo genitori, insegnanti, adulti difficili e una società difficile), è ora “soprattutto una comunità in cui circa ottanta bambini sono impegnati con gli insegnanti a costruire un ambiente dove si possa convivere in armonia e libertà.”[6] Per certi versi è la mia scuola ideale, almeno a livello teorico, da quello che ho appreso leggendone, poiché non ho ancora svolto al suo interno il periodo di volontariato che spero si concretizzerà presto: una scuola in cui non esistono compiti in classe, voti e pagelle. Ma quello che maggiormente mi interessa, considerando il mio impiego e impegno in una scuola superiore pubblica è come riuscire a integrare i principi a cui Summerhill si ispira, in un ambiente diverso quale è la scuola pubblica in cui lavoro.
Ammettendo che i miei allievi abbiano effettivamente scelto la scuola a cui si sono iscritti, un liceo scientifico sperimentale, come aiutarli a ricercare i propri obiettivi? Come offrire loro la possibilità di sviluppare se stessi (e la loro conoscenza dell’inglese) secondo i propri ritmi e interessi (venti, venticinque, o più ritmi diversi)? Come poterli accompagnare nellosperimentare qualsiasi sentimento senza imporre il mio giudizio (anche inconscio!) e il mio intervento (come esserci senza intervenire)? E soprattutto come accompagnarli in uncammino di responsabilità che permetta loro di dare forma alla comunità in cui si trovano ora e a quella che formeranno in futuro, e non semplicemente di integrarsi più o meno bene nella società odierna? E infine, pensando alla dimensione del gioco, come suscitare in loro il piacere di educare ed essere educati?
I capitoli successivi forniranno le risposte – parziali, temporanee, perfettibili – che ho trovato finora, e le molte domande che ancora mi pongo, e si pongono.

[1] Scelto dall’UNESCO fra i 100 pedagogisti più importanti di tutti i tempi, e dal Times Educational Supplement defiinito uno dei dodici educatori più importanti del ‘900.
[2] A.S. Neill, A Radical Approach to Child Rearing, Hart Publishing Company, 1960 (raccolti in Italia da Forum Editoriale nel 1971).
[3] A.S. Neill, I ragazzi felici di Summerhill, RED, 1990.
[4] Per uno splendido esempio dell’assemblea che si tiene a Summerhill ogni lunedì, mercoledì e venerdì dalle 13.45 alle 14.30 circa, a seconda delle necessità, si veda il sito interattivo: http://www.summerhillschool.co.uk/pages/themeeting.html.
[5] “Se un uomo è chiamato a fare lo spazzino, dovrebbe spazzare le strade così come Michelangelo dipingeva, Beethoven componeva, o Shakespeare scriveva poesia. Dovrebbe spazzare le strade così bene che tutte le schiere del cielo e della terra si fermerebbero a dire: ecco qui è vissuto un grande spazzino che faceva bene il suo lavoro.”
[6] Zoë Readhead in un’intervista con Francesco Codello in “Summerhill scuola di libertà”,Libertaria (2) 2001, p. 24.

Il percorso: ovvero dove sono
Dopo quattordici anni trascorsi in vari istituti tecnici e professionali di Torino e provincia, diurni e serali, nel 1999 ho ottenuto il trasferimento al Liceo Scientifico “Alessandro Volta” di Torino. Per il fatto che il mio impiego era a tempo parziale – una scelta non apprezzata dal mio preside precedente, che quindi non mi affidava stabilmente un corso – ho avuto l’opportunità per alcuni anni di insegnare in diverse sezioni della scuola. Ma con l’arrivo del nuovo preside, grazie anche a una mia maggiore anzianità nell’istituto, ho potuto “stabilizzarmi” sul corso C, uno dei due corsi che effettuano la sperimentazione del Piano Nazionale dell’Informatica[1]. E con il rientro a tempo pieno, a partire da quest’anno, insegno verticalmente in tutte le classi del corso, dalla prima alla quinta.
Nel mio liceo, gli studenti (o le famiglie) che scelgono la sperimentazione PNI sanno di avere un carico orario al mattino, e di impegno di studio al pomeriggio, superiore a quello dei compagni che scelgono l’indirizzo tradizionale (d’ordinamento) o altre sperimentazioni (di scienze o linguistica); e quindi, pur con le dovute differenze nei talenti individuali, gli allievi del corso sperimentale sono mediamente orientati a quella che nella scuola attuale viene considerata “l’eccellenza”. Inoltre, lo studio della fisica in modo sperimentale, ovvero attraverso numerose esperienze di laboratorio, nonché con una frequenza più intensa ed estesa nel tempo (tre ore alla settimana dalla prima alla quinta, invece delle due ore in terza e tre in quarta e quinta previste dal corso tradizionale), a mio avviso, permette ai ragazzi una conoscenza più approfondita e duttile della disciplina e un approccio alla fisica quantistica che, nel caso del mio metodo di insegnamento, diventa estremamente utile per poter fare collegamenti sia con la filosofia, sia con l’esperienza personale dei ragazzi, i quali possono sperimentare e sperimentarsi a un livello che a scuola normalmente non definisco tale, ma che qui posso contraddistinguere come spirituale.
Così, a partire da quest’anno scolastico, ho potuto finalmente pensare a un percorso di crescita e di esplorazione personale che, per gradi, accompagnasse i miei studenti nei cinque anni di liceo. Gli appunti che seguono tracciano un metodo per alcuni versi consolidato e per altri a livello sperimentale. Ha funzionato, funziona, funzionerà? Il saggio che ha detto che occorre applicarsi alla pratica quotidiana senza attaccamento al risultato, sapeva cosa significa fare l’insegnante (e il genitore e l’educatore): non saremo presenti quando i veri risultati del nostro lavoro, e dello sforzo congiunto docente-discente, si manifesteranno. Alcune cose hanno avuto effetti immediati, gli effetti di altre si cominciano a vedere dopo due, tre anni, ma solo la vitasaprà quali semi sbocceranno e quali invece non porteranno frutti: ai posteri dunque l’ardua sentenza, noi ci concentriamo sulla pratica quotidiana.

[1] Dal sito del Liceo Scientifico “A. Volta” di Torino: La sperimentazione riguarda matematica e fisica, materie per le quali è prevista una innovazione di programmi e un sostanziale cambiamento metodologico: in una scuola che è troppo spesso inadeguata alle esigenze di evoluzione della società. il PNI ha apportato sostanziali modifiche e continua a coinvolgere docenti e studenti nella sperimentazione di percorsi didattici più incisivi.
L’informatica non è considerata come disciplina a se stante, ma ha l’obiettivo di fornire educazione informatica; più precisamente dovrà tendere a suscitare:
·
 la sensibilità verso la problematica dell’educazione;
·
 l’abitudine a trattare comportamenti reali in termini di modelli;
· la capacità di rappresentare situazioni in modo formalizzato; 

·  l’abitudine al cambiamento, perché l’informatica opera in un settore ad alta tecnologia in cui le innovazioni sono continue e rilevanti.
 

In prima: conosci te stesso 101; si forma il gruppo; le regole di convivenza, l’obiettivo comune; i sogni son desideri.
Il primo giorno di scuola, in ogni ordine, è il giorno dedicato all’“accoglienza” delle classi prime. Quest’anno sono stata incaricata di accogliere la classe entrante. Ci sono alcune regole da espletare, quali l’appello e dare lettura del regolamento di istituto commentandolo, e altre pratiche che vengono affidate all’estro dell’insegnante. Ci sono colleghi che il primo giorno dettano le regole di comportamento nelle loro lezioni, altri che cominciano fin dalla prima ora a spiegare. In genere si dedica almeno qualche minuto alla presentazione dei ragazzi. I ragazzi più estroversi aggiungono qualche dato personale al loro nome, ma per qualcuno presentarsi a una ventina di compagni nuovi è fonte di imbarazzo e stress, così quest’anno ho distribuito a tutti un foglio di carta bianca chiedendo di scrivere a caratteri ben chiari il loro nome di battesimo – io chiamo per nome i ragazzi, ma do loro del lei; in inglese la differenza non si sente, e in italiano mi aiuta a stabilire un rapporto di reciproco rispetto e a non assumermi comportamenti genitoriali, né, per quanto possibile, proiezioni delle precedenti figure di riferimento. Sotto il nome avrebbero dovuto scrivere 7 parole, sostantivi o aggettivi, che li definissero, in cui si riconoscessero. Vedendo la difficoltà di qualcuno nel trovare una definizione di sé (o sette) da condividere, ho detto loro che poiché, tranne qualche raro caso, non si conoscevano, non erano tenuti a una descrizione veritiera, ma potevano “inventare” un personaggio, includendo aspetti che avrebbero voluto possedere. Anche a 14 anni è bello poter avere un fresh start, una nuova partenza e, nella mia esperienza, articolare visibilmente per iscritto una qualità, una caratteristica che si desidera possedere, un obiettivo che si desidera raggiungere, è una presa di responsabilità e un forte magnete per raggiungere la meta prefissata, o il sogno.
Io stessa ho compilato una lista di parole e insieme a loro l’ho attaccata sul petto con dello scotch perché tutti potessero leggerla. Poiché lo spazio in classe era limitato, siamo usciti in corridoio e in perfetto silenzio e serietà ci siamo messi a passeggiare, at leisure, leggendo le liste di tutti. Ci siamo scambiati qualche sorriso e qualche segno di riconoscimento quando scoprivamo le stesse qualità: che andavamo in bicicletta, che ci piaceva quel tipo di musica, e siamo tornati in classe sapendo qualcosa di più degli altri, qualcosa che in una normale situazione scolastica ci sarebbero probabilmente volute settimane a scoprire. Ho poi raccolto i foglietti e li conservo per usi futuri, per monitorare i cambiamenti nel tempo, ad esempio a fine anno vorrei che ognuno di noi ricompilasse la lista per vedere se vi sono modifiche nella propria auto-immagine, o a quali caratteristiche si attribuisce ora una maggiore importanza, o a quale livello di profondità si è pronti a condividere se stessi con il gruppo, e anche quanto ci si sia avvicinati alle qualità che ancora non ci appartenevano ma a cui si aspirava, (il simpatico E. aveva scritto studioso nella sua lista, e quando in una conversazione gliel’ho ricordato, ha ribattuto: “Ha detto che si poteva inventare!”).
Ogni classe è un’entità a sé stante e, come ben sappiamo, non è soltanto la somma dei suoi componenti, ma un sistema organico che vive una vita propria, trasformando la vita individuale dei suoi elementi ed essendone trasformato. Al gruppo, alla formazione del gruppo, va dunque data grande attenzione. Nel biennio della scuola superiore si nota che è soprattutto l’insegnante di lettere, che ha il maggior numero di ore settimanali con gli studenti, a dare un’impronta alla classe, tuttavia c’è molto che gli altri insegnanti possono fare. In prima io cerco di privilegiare le ore di circle time[1]al fine di costruire un gruppo affiatato e collaborativo. Quest’anno ho avuto la fortuna di avere all’interno della classe diversi ragazzi che studiano musica – da qualche tempo nel nostro bacino di utenza ci sono due scuole medie con corsi a indirizzo musicale, quindi negli anni a venire il numero di allievi che da anni pratica musica cosiddetta “colta” dovrebbe aumentare –, in realtà in prima superiore tutti i ragazzi sono ancoraabituati a suonare, perché nella scuola media lo studio del flauto dolce è parte del programma di educazione musicale, però fanno presto a dimenticare non praticandola più. Quest’anno in prima ci sono due pianisti, una chitarrista, una clarinettista, più alcuni ragazzi che suonano musica rock con gli amici. Fin dai primi incontri di circle time abbiamo messo la musica al centro della nostra attenzione. La prima volta ho portato una campana tibetana, abbiamo abbassato le luci e creato un ambiente adatto all’ascolto interiore: ho chiesto loro di sentirne le vibrazioni con l’udito e con tutto il corpo, poi abbiamo condiviso le sensazioni e le emozioni che il suono ci aveva suscitato. Abbiamo fatto incontri discutendo delle nostre preferenze musicali (tutto rigorosamente in inglese), e infine ho presentato l’orchestra ai ragazzi:
 
chiedendo loro se sarebbero stati d’accordo a preparare un paio di pezzi per Natale, per fare una sorpresa al Preside e agli altri compagni. Fare musica d’insieme è una grandissima esperienza: con il proprio impegno e la propria abilità personale si concorre a un progetto artistico, a un risultato che, proprio come la classe, è assai maggiore della somma di ogni sua parte. Ogni mercoledì mattina alla prima ora, destinata al circle time, spostavamo i banchi, sfoderavamo voci e strumenti, accantonavamo timidezze e imbarazzi, e preparavamo la “sorpresa”. In corso d’opera è stato inserito nella classe un ragazzo proveniente da altra scuola. A differenza dei compagni, S. non aveva mai studiato inglese, ma studia pianoforte al conservatorio, e così invece di subire l’handicap di una preparazione inferiore (nella mia materia), è diventato un punto di riferimento all’interno della nostra “orchestra”. Nelle ultime fasi siamo stati aiutati da una maestra di coro che ci ha impostati e poi diretti. E nel mercoledì che precedeva il Natale, anche la prof. si è cimentata all’arpa e al triangolo, insieme ai suoi ragazzi per i corridoi della scuola. La sorpresa è stata assai gradita, altri ragazzi hanno chiesto di potersi unire a noi e questa piccola avventura di classe è stata il seme che ha portato alprogetto musica, che il prossimo anno vedrà la nascita nel nostro istituto di laboratori musicali pomeridiani, condotti da esperti esterni, docenti della scuola e allievi. È nato il gruppo, ha trovato un obiettivo comune, e l’obiettivo è stato un magnete che ha attratto altri nella sua sfera di influenza, propellendoci verso un obiettivo superiore anche alle nostre aspettative. Non mi sorprenderei se fra qualche anno si formasse una vera orchestra del Liceo Volta…
 
Con l’occasione delle Olimpiadi Invernali, abbiamo deciso di think big, di pensare in grande, ed abbiamo gettato i semi di un progetto per i giochi di Vancouver del 2010. In piccoli gruppi i ragazzi hanno creato dei poster simbolici del nostro desiderio di creare un ponte tra la nostra città e Vancouver e, perché no, attraversarlo per farci portare fino in Canada. I gruppi hanno poi illustrato i loro poster alla classe e con una votazione è stato scelto il best poster, premiato con la spillina dei giochi di Vancouver. La votazione rientrava nella pratica della valutazione ed autovalutazione, uno strumento di cui parlo più avanti.
E visto che i sogni erano diventati centrali al nostro progetto didattico, abbiamo deciso di vedere il film di Marc Forster, Finding Neverland, la storia di come J.M. Barrie sia stato ispirato a scrivere Peter Pan; quindi i ragazzi a piccoli gruppi hanno preparato una presentazione sull’autore, Barrie, sul romanzo, sulle versioni cinematografiche ed i cartoni animati, e sulle canzoni che la storia di Peter Pan ha ispirato a Edoardo Bennato; il tutto, ovviamente, in inglese: un progetto non da poco in una prima superiore. Quando, nello spazio di tempo che ci divideva dal giorno in cui avrebbero presentato i lavori di gruppo, ho offerto loro la scelta fra due film (considero fondamentale allenare i ragazzi alla scelta, e ad accettare la scelta della maggioranza): se continuare con il tema di Peter Pan, con film di intrattenimento come Hook, oppure proseguire sul tema dei sogni con Shakespeare e A Midsummer Night’s Dream, la classe si è espressa a schiacciante maggioranza per Shakespeare. Non mi era mai capitato in una prima, e credo che la scelta sia stata in parte suscitata dall’uso che abbiamo fatto dell’arte nelle nostre lezioni di lingua inglese.

[1] Cfr. il capitolo 5, p. 80.

In seconda: il corpo è il mio veicolo; le energie che mi percorrono; la scienza.
 
Il liceo è duro, negli incontri di dicembre con i genitori che vengono a conoscere la scuola con la prospettiva di iscrivere i loro ragazzi in prima, diciamo che si devono mettere in conto 3 ore di studio quotidiano (oltre alle 5 o 6 ore in classe di mattina), entro la quarta la maggior parte dei ragazzi abbandona le attività sportive extra-scolastiche e molti anche quelle musicali. Per otto ore al giorno sei giorni alla settimana (tranne le due ore scarse di educazione fisica, nella palestra al chiuso sottoterra) i ragazzi scordano di avere un corpo fisico, siedono scomposti in banchi scomodi o curvi sulla scrivania, e poi, per distendere la mente, siedono ancora ingobbiti davanti al computer o stravaccati sul divano. E intanto i loro corpi crescono, gli ormoni si scatenano, e loro trascinano le stanche membra da casa a scuola dove gli si insegna a vivere dal collo in su, con la preghiera di agitare il meno possibile il resto del corpo. I due intervalli di 10 minuti a molti di loro servono per fumare una sigaretta, alcuni escono di classe anche fra un’ora e l’altra per fumare di nascosto. Panini e merendine piene di zuccheri e di grassi saturi dovrebbero rifornire il carburante necessario alle menti concentrate sulle lezioni. Studiano latino, ma dov’è finito Giovenale con il suo mens sana in corpore sano? Intanto l’obesità e i disordini alimentari pesano sempre più sulla sanità pubblica e sui cuori delle famiglie. Coloro che studiano le nuove generazioni, i cosiddetti indigo children[1], sotto il profilo spirituale, affermano che i ragazzi dei nostri giorni sono poco radicati nel corpo. La psicosintesi descrive la natura dell’individuo come bio-psico-spirituale, e come i disturbi psicosomatici ci insegnano, il nostro corpo pensa per noi, le esperienze positive e negative si inscrivono fisicamente nelle nostre membra. Che cosa può fare l’insegnante di inglese nell’ora in più rispetto alla classe prima, prevista per la seconda? Può ringraziare un’insegnante di biologia inglese, ormai ottantenne, Marguerite Smithwhite, che nel 1986 – proclamato dalle Nazioni Unite “Anno Internazionale della Pace” – ha creato l’International Children’s Peace Council, il Consiglio Internazionale dei Ragazzi per la Pace, un organismo in cui i ragazzi di ogni provenienza, cultura e religione possono scambiare le loro idee su come creare una vera pace sul nostro pianeta. Nel 2003 l’IPCP Italia ha pubblicato un testo bilingue dal titolo Chi sono io? Who am I?[2], un vademecum per aiutare adolescenti e giovani a costruire un nuovo futuro. Il libro, con testo a fronte, è rivolto a due fasce d’età: all’adolescenza (dai 14 ai 20 anni) e all’età della formazione della propria identità da adulto (dai 21 ai 28 circa). Si presenta come un’autoanalisi e invita i lettori a rispondere con sincerità – dopotutto è for their eyes only, solo per i loro occhi – a 365 domande suddivise in 13 capitoli che vertono sui seguenti temi:
1.      Il corpo è il mio cavallo: lungo la vita mi porterà;
2.      Una gioventù nuova;
3.      La potenza del pensiero;
4.      Io sono un essere unico e irripetibile:
5.      Autostima – un tesoro;
6.      Scopriamo la creatività,
7.      Metti la comprensione amorevole nei rapporti;
8.      Il primo banco di prova: la famiglia;
9.      L’intreccio dei rapporto;
10. Lei e lui;
11. Essere un cittadino del Pianeta;
12. Il nostro posto nell’universo;
13. E adesso?
In seconda propongo ai ragazzi le 28 domande che li portano a riflettere sul loro corpo fisico, sull’identità: il proprio nome, il suo significato e le ragioni per cui è stato imposto; sulle radici famigliari; sul fisico allo stato attuale:
Visito il mio corpo per diventare consapevole del suo stato attuale, della sua forma e della sua salute.
Chiudo gli occhi per percepirmi meglio.
  • Registro tutti i punti di appoggio che mi “raccontano” la Legge di Gravità su questo Pianeta.
  • Visito la mia struttura ossea.
  • Facendo dei piccoli movimenti percepisco i muscoli in tutte le parti del corpo; mi permettono la posizione dell’“Homo Erectus” con tutte le varie possibilità di movimento.
  • Porto attenzione a tutti i miei organi e infine alla mia pelle che separa questo mondo interno dal mondo circostante.
  • Quali sono le parti del mio corpo che hanno bisogno di cura maggiore per essere riportare allo stato ottimale?
  • Quali sono le zone dove si annidano le maggiori tensione?
  • Quali parti del mio corpo sto trascurando o danneggiando?
  • Forse sfrutto troppo il mio corpo e in che modo?
  • So riconoscere i miei vizi e le mie debolezze?
  • Voglio porvi rimedio?… Come?
  • Di che cosa sono particolarmente riconoscente al mio corpo?[3]
Anche se non vengono spinti a condividere, in genere queste ricognizioni nel corpo fisico originano interessanti scambi e aprono il campo alla fase successiva del lavoro che prevede l’esplorazione delle energie: “Ogni essere vivente è un campo di energia, immerso nell’energia cosmica”.[4] Insegnare nel corso di fisica sperimentale, in uno dei sette licei scientifici italiani che partecipa al progetto E.E.E. [5], fa sì che i ragazzi siano contemporaneamente aperti all’aspetto tecnico delle energie cosmiche e a quello che definirei… più poetico: infatti nelle domande dell’ICPC, osserviamo come attingiamo alle energie che attraversano il nostro corpo dai vari elementi: terra, acqua, fuoco, aria.
In una seduta successiva vengono invece analizzate le responsabilità che abbiamo nei confronti del nostro corpo:
Essendo ora più consapevole della mia forza e delle mie eventuali debolezze, sono disponibile ad usare la mia facoltà di buona volontà per auto-disciplinarmi?
Voglio sfidarmi a creare un piano di azione per trasformare le mie debolezze rendendo il mio corpo un valido strumento per il mio compito nell’evoluzione umana?
Applicherò molta pazienza, “se non ci riuscirò, non mi scoraggerò: ci proverò di nuovo”, e celebrerò ogni risultato positivo. Osserverò e annoterò la crescita relativa alla mia autostima e al mio benessere generale. Let’s get to do the work now![6]
Nei mesi seguenti, uso schede tratte da vari libri[7], per aiutare i ragazzi a convogliare le energie al loro corpo in modo salutare, e per trovare modi di incrementare il livello energetico quando ne sentono il bisogno. Il lavoro esperienziale corre di pari passo con le letture di argomento scientifico che cominciamo a fare proprio in seconda, secondo il CLIL, Content and Language Integrated Learning, ossia l’apprendimento congiunto della lingua inglese e dei contenuti di altre discipline, cosicché le attività si integrano e consolidano reciprocamente e armoniosamente.

[1] Cfr. http://www.indigochild.com.
[2] International Children’s Peace Council – ICPC Italia, Chi sono io? Who am I? Vademecum to help teenagers and young people to build a new future, Edizioni Synthesis, 2003, pp. 8-239.
[3] Ibidem, pp. 42-44.
[4] Ibidem.
[5] Cfr. http://volta.altervista.org/eee.htm. Il progetto consiste nell’installazione nella scuola di un rivelatore di particelle di origine cosmiche in connessione on line con il sistema nazionale per la registrazione simultanea di eventi ad alta energia. Si tratta di registrare l’arrivo nell’atmosfera terrestre di sciami di raggi cosmici estremamente energetici e di individuarne, tramite la coincidenza nei tempi d’arrivo sulle varie stazioni, la direzione di provenienza e quindi le probabili sorgenti celesti.
[6] Ibidem, pp. 48-51
[7] Per esempio: J. Gordon, Energy Addict. 101 physical, mental, & spiritual ways to energize your life. Perigee, 2003.

 

In terza: apro il libro della vita, le emozioni queste sconosciute, diario delle vacanze, è arrivato un bastimento carico di….
Purtroppo con la terza l’orario settimanale di inglese, ampliato a 4 ore in seconda, ritorna ad essere di tre ore, proprio quando, accanto alle lezioni di lingua, è previsto che si inizi il programma di letteratura. Nel passato, quando per via del mio contratto a tempo parziale ereditavo le nuove classi in terza, ero solita abbandonare lo studio della lingua sul manuale e dedicarmi prevalentemente alla letteratura. Tuttavia mi sono resa conto che i ragazzi, almeno quelli che preparo io, necessitano ancora di un anno di corso, prima di potersi dedicare alla preparazione per le certificazioni europee di conoscenza della lingua inglese, in vista dell’iscrizione all’università. Così ho pensato di riservare allo studio tradizionale della letteratura due ore in quarta e quinta e di esplorare invece in terza quelle due forme letterarie che sono l’autobiografia e il cinema tratto da testi letterari. Di cinema parlo nella sezione degliStrumenti, quindi mi concentrerò qui sul libro della vita.
Il percorso cominciato in seconda con il corpo fisico, prosegue con l’osservazione delleemozioni. Il testo dell’IPCP dedica 18 domande al mondo delle emozioni che io integro con un adattamento del kit autobiografico di Duccio Demetrio, Il gioco della vita.[1] L’autore ci invita a recuperare la dimensione ludica nel ricomporre da molti frammenti un ritratto della nostra vita: “Ogni viaggio nel passato, lungo o breve, paziente o disordinato, casuale o cercato, è una rotta, ‘a vista’ o meno, di carattere formativo. Anzi, per essere più precisi, decisamente autoformativa: apprendiamo da noi stessi rileggendo i capitoli della nostra vita e abbiamo voglia di cimentarci con la scrittura che, come nessuna altra tecnica, ci permette di sdoppiarci.”[2]
Il viaggio comincia con una rivisitazione del gioco dell’oca, in cui immagini e titoli che contengono in una parola l’istruzione ci invitano a ricordare vari momenti della nostra vita: una poesia, una bugia, un viaggio, una paura, un maestro, un dolore, una gioia, una sconfitta… Si gioca a piccoli gruppi, 4-5 persone a turno, gli altri stanno ad ascoltare e alla fine proclamano il re o la regina del gioco, colui o colei che avrà saputo raccontare meglio le proprie storie, che non hanno da essere veritiere, ovviamente: lo spunto è per rivisitare la propria biografia, ma ognuno è libero di dare sfogo alla propria creatività, purché la storia sia raccontata in prima persona e autobiograficamente credibile (anche se tante volte abbiamo convenuto che se avessimo letto in un libro coincidenze e fatti a noi realmente accaduti, le avremmo giudicate troppo romanzesche).
I nostri incontri di circle time sono così dedicati a rievocare, ricordare, rimembrare, secondo le definizioni di Demetrio:
  • rievocare significa richiamare dalla penombra dell’oblio cose, fatti, sensazioni, figure;
  • ricordare vuol dire ritrovare quelle particolari rievocazioni più significative di altre per le emozioni, gli stati d’animo e affettivi che ci fanno rivivere;
  • rimembrare equivale a rimettere insieme rievocazioni e ricordi per dare loro una forma, un disegno, un’architettura.[3]
E a comporre un autoritratto delle emozioni che viene approfondito con i compiti delle vacanze. Tre anni fa ebbi l’idea di consegnare a ogni ragazzo un quadernetto dai fogli bianchi. Il quaderno aveva una riproduzione d’arte in copertina, e nella prima pagina avevo inserito una poesia, ovviamente in lingua inglese, tratta dal libro Poem for the Day[4], la scelta della poesia era “casuale”, ossia era quella che ricorreva nella data del compleanno dell’allievo. Nel quaderno c’era un foglietto scritto a mano da me che diceva: “The only instruction is to turn in the exercise-book COMPLETED and SIGNED on the 1st day of school in September. No delay! Whoever fails to do it gets an F (fail) = 3/10. Have a nice holiday!” Il quadernetto andava riconsegnato completato e firmato il primo giorno di scuola, pena un 3 sul registro. E il primo giorno di scuola sono tornata a casa con un canestro colmo di diari meravigliosi, quasi tutti completi – tranne due – pieni di racconti, di fotografie, biglietti, pieni soprattutto di fiducia nell’insegnante a cui erano stati consegnati. Inizialmente avevo pensato di usarli per la mia tesi, ma poiché non avevo avvertito i miei allievi in precedenza, non mi è parso giusto esporre le parti di loro che mi avevano fiduciosamente affidato. Quindi ho restituito grata i quaderni, ringraziandoli per la finestra che mi avevano aperto sulla loro vita e chiedendo loro se ci fossero delle pagine che avrebbero potuto condividere con me e con la mia tesi. Alessio e Chiara mi hanno dato il diario intero, ma qui mi sento di condividere solo i loro nomi. Il resto è racchiuso nel tempo/tempio del nostro corso insieme.
In terza comincia un po’ in sordina il Dante’s Path. Tra gli esercizi che Assagioli ha proposto per favorire la psicosintesi personale e transpersonale, ce n’è uno basato sulla Divina Commedia. Partendo da ciò, gli psicosintetisti americani Bonney Gulino Schaub e Richard Schaub hanno elaborato un metodo pratico per contattare la propria “saggezza interiore”, la propria Beatrice, attraverso un percorso di esercizi sulle tracce di Dante e Assagioli.[5] Di tanto in tanto nel triennio propongo qualche esercizio, legandolo allo studio di Dante che i ragazzi cominciano quest’anno.
La terza è l’anno del Progetto Vela: tre giorni in barca a vela con l’insegnante. Non è direttamente legato alla mia materia, anche se svolgiamo una parte di terminologia in inglese, tuttavia come accompagnatore dei miei ragazzi posso testimoniare che in tre giorni di convivenza, notte e giorno, in sette nello spazio limitato di un cabinato di 11, 13 metri, tra cielo e mare, la conoscenza reciproca si approfondisce e, soprattutto, la prospettiva da cui ci si guarda muta irrevocabilmente. L’ho notato quest’anno, quando ho potuto accompagnare solo 14 dei 26 allievi della classe. Condividere la cambusa, il sonno, il mal di mare, e le maldestre manovre da principianti, dove la prof. non sapeva nulla di più dei suoi studenti, anzi: qualcosa di meno, ha creato una complicità giocosa che in nulla lede il rispetto reciproco, ma approfondisce il legame. Un bastimento carico di… divertimento, allegria, condivisione, gioia, apprendimento…

[1] Duccio Demetrio, Il gioco della vita. Trenta proposte per il piacere di raccontarsi. Guerini e Associati, 1997.
[2] Ibidem, pp. 13-14.
[3] Ibidem, p. 18.
[4] N. Albery cur., Poem for the Day, Chatto & Windus, 2001.
[5] B. Gulino Schaub e R. Schaub, Dante’s Path, A practical approach to achieving inner wisdom, Gotham Books, 2003, tr. it. di G. Lonza e S. Seeley Rosselli, Il Metodo Dante, Piemme, 2004.

 

In quarta: cogito ergo sum; scienza e letteratura; tutto è energia.
La quarta è l’anno in cui si studia il razionalismo moderno, da Cartesio a Kant. Ci si distacca dalle gnoseologie antiche e medievali che consideravano l’oggetto da conoscere come qualcosa di dato, indipendente dal soggetto che lo apprende, e ci si sposta su una filosofia che tende a trovare nel soggetto il fondamento del conoscere e nell’attività conoscitiva del soggetto il principio che costituisce e ordina il mondo oggettivo. L’attenzione dello studente è qui indirizzata sul pensiero che interpreta e dà ordine al mondo. Il nostro percorso di auto-conoscenza si sposta allora sul piano del mentale e cominciamo ad osservare i nostri pensieri. Non è esatto: anche negli anni precedenti abbiamo posto l’attenzione sul nostro pensiero, dalla prima ripetiamo che energy follows thought, ma ora ci disponiamo a indagare il mondo del pensiero, diventando consapevoli della qualità dei nostri pensieri e degli effetti che essi producono su di noi, sugli altri e sul mondo che ci circonda.
Dapprima osserviamo il flusso del pensiero e dove questo ci conduce. Poi ci chiediamo se i nostri pensieri riguardo noi stessi e gli altri siano soprattutto positivi o soprattutto negativi, quindi osserviamo come ci sentiamo quando formuliamo pensieri positivi su noi stessi. Da quello che abbiamo appreso sull’energia negli anni precedenti ipotizziamo che ogni pensiero “formulato nella mia mente è un’energia e che il modo positivo o negativo di pensare determina la qualità di questa energia e quindi la qualità del mio modo di essere”,[1] e verifichiamo nella nostra vita la correttezza o meno di tale affermazione. Quindi prendiamo consapevolezza delle onde di pensiero che emettiamo e del loro effetto sugli altri, del campo magnetico formato dai nostri pensieri e da quelli altrui che vengono magneticamente attratti da noi. Quando riusciamo a integrare questa consapevolezza, ci rendiamo conto della responsabilità che abbiamo, semplicemente formulando dei pensieri. A questo punto, se lo desideriamo, possiamo decidere di fare uso dell’auto-suggestione positiva, sostituendo i pensieri negativi rispetto a noi stessi (“non sono capace”, “non ce la farò mai”…) con pensieri positivi (“ci provo”, “farò del mio meglio”…), e osservare i cambiamenti che avvengono nella nostra vita:
Ogni pensiero è una manifestazione di energia. Essa assume la QUALITÀ del pensiero emesso, cioè l’energia segue il pensiero!
Ogni pensiero emesso da qualsiasi essere umano determina la qualità della vita sul nostro Pianeta.[2]
Possiamo paragonare la mente umana a una grande orchestra con tanti strumenti e il proprio direttore. Ogni pensiero è uno strumento. Se ogni pensiero “suona” per conto suo, si crea disarmonia. Il compito del direttore, cioè della nostra mente, è di dirigere tutte le componenti dell’orchestra per produrre, al meglio possibile, grande armonia e bellezza.
Ogni pensiero di pace alimenta la pace intorno a noi.
Ogni pensiero di litigio alimenta la tendenza al litigio intorno a noi.
Ogni disputa tra nazioni potenzia l’energia di guerra nel mondo.
Ogni dialogo costruttivo tra noi individui, tra gruppi e nazioni potenzia l’energia di pace nel mondo.[3]
Quest’ecologia della mente è per me un argomento fondamentale. Non importa da quanti anni cerco di praticarla, sono sempre una principiante, come i miei allievi, e tento di applicare a me stessa la pazienza che ho con loro, ripetendo anno dopo anno il percorso.
 
La quarta è anche l’anno in cui cominciamo il programma di letteratura. Scopriamo l’influenza che Boccaccio ha avuto su Chaucer, e quella di Dante e Petrarca sui sonettisti inglesi. Dedichiamo tre mesi al mondo di Shakespeare. Integriamo la letteratura con la scienza, con la filosofia, con l’arte visiva, con la musica, con il cinema. E di ogni cosa osserviamo l’influenza sulla nostra vita, o più precisamente, sulla qualità della nostra vita. Ogni occasione è buona per aprirci al mondo del pensiero e per integrarvi le emozioni.
Cerco di stimolare sempre la creatività degli allievi, ma forse l’occasione migliore giunge quando, intorno a Pasqua, affrontiamo il ‘700 e la nascita del romanzo attraverso le opere di Defoe, Swift, Fielding, Richardson e Sterne. Attraverso un lavoro di gruppo i ragazzi presentano ai compagni di classe gli autori e le loro opere, proponendo anche una serie di esercizi. Accanto al metodo più “tradizionale” di offrire la lezione, gli allievi sono invitati a dare un contributo creativo. Solo per citare le presentazioni di quest’anno, i cinque gruppi degli allievi della IV C hanno prodotto tre filmati: uno che, a mo’ di animazione con pupazzetti e giocattoli, riproduce le avventure de I viaggi di Gulliver, unito a tre poster in cui vengono presentati altri aspetti dell’opera e della biografia; un filmato in cui viene recitata una scena della Pamela di Goldoni ispirata alla Pamela di Richardson; e un film sottotitolato che narra la biografia di Sterne. A ciò aggiungiamo una versione illustrata delle Avventure di Robinson Crusoe per l’infanzia; e un sito per presentare la vita e le opere di Fielding con esercizi interattivi, oltre a una canzone composta ed eseguita da due componenti del gruppo.[4]
E dopo il secolo dei Lumi, trascorso a esplorare la parte mentale, verso fine anno con il Pre-Romanticismo torniamo a contattare il cuore, l’unione di tutte le cose nella Natura e, con Edmund Burke e i poeti Romantici, ci lanciamo alla scoperta del Sublime.

[1] ICPC Italia; op. cit., p. 66.
[2] Brahma Kumaris, “Vivere i Valori”, pp. 51-67.
[3] ICPC Italia; op. cit., p. 70.
 [4] Cfr. il testo in Appendice, p. 111.

In quinta: qual è la mia strada? che ci faccio qui? dove voglio andare? la letteratura sonda la psiche; ritorno al mito; storie di guerra e di pace.
In quinta l’orario prevede nuovamente quattro ore settimanali; nonostante l’attenzione e la preoccupazione dei ragazzi si vada a mano a mano appuntando sull’esame finale, in virtù del respiro più ampio dell’orario, e del fatto che mi sono lasciata alle spalle l’insegnamento della lingua in quanto tale, e delle certificazioni europee, posso dedicare molto più tempo all’introspezione.
Gli obiettivi generali del quinto anno scolastico sono, ovviamente, una sintesi di quanto appreso nel corso del liceo, la sfida dell’esame di stato (anche se assai addolcita dalla nuova normativa), e la scelta dell’università e dunque del cammino professionale che si intende intraprendere. Sono mete che generano ansia e preoccupazione nella più parte dei ragazzi, anche se a volte nascoste da una maschera di disinteresse per la scuola, se non addirittura apatia.
A partire da quest’anno, i compiti delle vacanze tra la quarta e la quinta prevedono una cinquantina di domande tratte dal capitolo “Scopriamo la creatività” del testo dell’ICPC Italia.[1] Ritengo che una riflessione approfondita sulla propria creatività possa attivare delle risorse particolari in questo momento di scelte di vita.
Se negli anni precedenti ho privilegiato i collegamenti con la fisica e le discipline scientifiche, in quinta approfondisco in modo particolare i legami con i programmi delle materie umanistiche: James, Freud e Jung per quanto riguarda la filosofia, e la letteratura influenzata dalle scoperte della psicologia: Woolf, Joyce, Svevo…, la letteratura e la cinematografia del “doppio”: Stevenson, Wilde, ma anche Face/Off[2]Passion of Mind[3] e Sliding Doors[4]. Nella prima parte dell’anno lavoriamo in modo particolare sull’“Ombra” insieme a Dorian Gray, Jekyll/Hyde e alla letteratura vittoriana del terrore. A mano a mano che Conrad procede verso il suo Cuore di Tenebra, ci inoltriamo nel confronto con gli aspetti di noi che meno ci piacciono, consapevoli ormai a questo punto che “as it is above it is below”, solo una maggiore Luce ci permette di osservare le ombre, e ogni ombra di cui ci riappropriamo – we own it – ogni “qualità difettuale” che riconosciamo come nostra, apre la porta al riconoscimento della qualità opposta, che è altrettanto nostra. Il Tao della quinta liceo!
       
Il programma di letteratura ci riporta anche al mito, in particolare ad Ulisse e all’Odissea, ma anche a Beowulf e alla mitologia nordica. Il mito ci riporta agli archetipi di Jung e all’inconscio collettivo. Gli stessi personaggi di un film d’azione come Face/Off riportano ai miti di Adamo ed Eva e Castore e Polluce, e la nostra spirale si muove above and below, attraverso le condivisioni nel circle time, nei temi, e addirittura nelle prove di verifica[5], poiché io credo che qualsiasi occasione di contattare una parte profonda di noi sia preziosa e non vada sprecata, e che ogni momento della vita scolastica sia un momento della Vita e vada quindi vissuto in ogni possibile sfaccettatura: la vita è qui, ora; non là fuori, quando avrò finito il compito in classe.
La quinta è anche l’anno in cui si affrontano sia in storia, sia in letteratura, le grandi guerre dell’ultimo secolo, e anche quelle del secolo appena cominciato. Mi piace affrontare il tema della Pace partendo da un’affermazione apparentemente scioccante di Osho: “L’uomo di pace non è pacifista”[6], e da lì esplorare le molte guerre che si combattono dentro di noi, fino al punto di proiettarle fuori di noi, e trovare nell’“altro”, nel “diverso da noi”, l’avversario che si agita in noi. E così tornare al tema dell’amore, che è speculare nel meccanismo psichico che lo anima: amo fuori di me quel che sento mancare in me, mi innamoro di ciò che credo di non avere, proietto sull’amato, sull’amata, ciò che vorrei possedere, e dopo un periodo più o meno lungo, così come sono “caduto innamorato” – fallen in love, I fall out of love, – mi disamoro.
Pace non trovo e non ho da far guerra              I find no peace, and all my war is done:
e temo, e spero; e ardo e sono un ghiaccio;      I fear, and hope; I burn, and freeze like ice;
e volo sopra ‘l cielo, e giaccio in terra;               I fly above the wind, yet can I not arise;
e nulla stringo, e tutto il mondo abbraccio.         And nought I have, and all the world I seize on;
Tal m’ha in pregion, che non m’apre nè sera,    That locketh nor loseth holdeth me in prison,
nè per suo mi riten nè scioglie il laccio;              And holdeth me not, yet can I ‘scape nowise:
e non m’ancide Amore, e non mi sferra,            Nor letteth me live, nor die at my devise,
nè mi vuol vivo, nè mi trae d’impaccio.               And yet of death it giveth me occasion.
Veggio senz’occhi, e non ho lingua, e grido;     Without eyen I see, and without tongue I ‘plain;
e bramo di perire, e chieggio aita;                       I desire to perish, and yet I ask health;
e ho in odio me stesso, e amo altrui.                   I love another, and thus I hate myself;
Pascomi di dolor, piangendo rido;                       I feed me in sorrow, and laugh in all my pain.
egualmente mi spiace morte e vita:                     Likewise displeaseth me both death and life,
in questo stato son, donna, per voi.                   And my delight is causer of this strife
Francesco Petrarca, CXXXIV (1304-1374)            Sir Thomas Wyatt (1503-1542)
A livello di introspezione personale, possiamo qui affrontare le domande che il testo dell’ICPC propone quando si fa il proprio ingresso nell’universo della “Legge di Attrazione degli Opposti”, in questo caso tra il mondo femminile e quello maschile, per poi aprirsi alla condizione di cittadino del mondo, del Pianeta e dell’Universo.
Quanto questi temi si possano approfondire (verso l’alto e il fuori, e verso il basso e il dentro) dipende da vari fattori: da ogni singolo studente, dal gruppo classe, dal consiglio di classe – formato da insegnanti, studenti e genitori – e così via, ma anche, e forse soprattutto, dall’insegnante. Non si può condurre qualcuno in una terra che ci è ignota, possiamo al massimo suggerire l’esistenza di quello spazio, e guidare la persona fino al confine di ciò che conosciamo, ma fingerci esperti di orienteering quando non lo siamo, o almeno non in quel determinato territorio, espone al pericolo proprio coloro che vorremmo guidare. Per questo continuo a esplorare dentro e fuori di me, confidando saranno gli studenti a spingermi a fare un passo in più verso ciò che ancora non conosco, e soprattutto confidando nella visione sconfinata e telescopica del nostro Sé che guardando dall’alto può condurci saldamente verso quello che ci è utile in ogni preciso momento.

[1] Op cit., pp. 108-123
[2] John Woo, 1997.
[3] Alain Berliner, 2000.
[4] Peter Howitt, 1998.
[5] Vedi la terza prova sul tema di The Future, p. 87.
[6] A man of peace is not a pacifist, a man of peace is simply a pool of silence. He pulsates a new kind of energy into the world, he sings a new song. He lives in a totally new way. His very way of life is that of grace, that of prayer, that of compassion. Whomsoever he touches, he creates more love-energy. The man of peace is creative. He is not against war, because to be against anything is to be at war. He is not against war, he simply understands why war exists. And out of that understanding he becomes peaceful. Only when there are many people who are pools of peace, silence, understanding, will the war disappear. Un uomo di pace non è un pacifista, un uomo di pace è solo una pozza di silenzio. Introduce una nuova forma di energia nel mondo, canta una canzone nuova. Vive in un modo totalmente nuovo. Vive la vita della grazia, della preghiera, della compassione. Chiunque egli tocchi, crea nuova energia d’amore. L’uomo di pace è creativo. Non è contro la guerra, perché essere contro qualcosa significa essere in guerra. Non è contro la guerra, semplicemente capisce perché la guerra esiste. E da quella comprensione si riempie di pace. Solo quando molte persone saranno pozze di pace, di silenzio, di comprensione, la guerra scomparirà.

Circle time
Il Circle time è uno degli strumenti più preziosi di cui dispongo. I ragazzi conservano memoria del circle time dell’asilo quando, a inizio mattinata, sedevano in cerchio e a turno raccontavano liberamente qualcosa alla maestra: l’accaduto del giorno precedente, pensieri estemporanei, dubbi…
Io l’ho scoperto soltanto frequentando i corsi di counseling. La circolarità riporta ad Artù e ai Cavalieri della Tavola Rotonda, dove nessuno è il primo; l’insegnante è inserito all’interno del cerchio, non si trova sulla predella alla cattedra di fronte alla classe, ma seduto alla stessa altezza dei ragazzi e nella medesima posizione: è più facile così non essere il bersaglio delle proiezioni genitoriali o di altri insegnanti che i ragazzi possono mettere inconsciamente in atto. Per me è inoltre più semplice uscire dal ruolo di docente e assumere quello di focalizzatore del gruppo. Durante quest’ora spostiamo i banchi lungo le pareti della classe e disponiamo le sedie in cerchio, non ci sono posti fissi, gli studenti cambiano postazione di settimana in settimana, e di volta in volta io prendo una posizione diversa all’interno del cerchio.
Il circle time è un tempo sacro in cui non vengono assegnati voti, né espressi giudizi sui presenti, anche se, occasionalmente durante i giochi, possono venire valutate le creazioni individuali e di gruppo. In genere dedico un’ora alla settimana ad attività “libere” di questo genere (che pare poco ma è moltissimo poiché corrisponde al 33% del tempo classe in prima, terza e quarta e il 25% in seconda e quinta), e mi sono imposta di non programmare mai verifiche scritte o orali in questo spazio. Quando presento questa attività ai genitori nei consigli di classe la definisco “l’ora di conversazione” e ciò è vero poiché i ragazzi sono tenuti ad esprimersi in inglese, per quanto occasionalmente è possibile utilizzare l’italiano quando emergono dei problemi relazionali nel gruppo e lo strumento della lingua inglese non è adeguato ad esprimere pienamente il vissuto.
Il circle time può avere moltissime applicazioni ed è uno strumento trasversale per lo sviluppo non soltanto di varie tematiche, ma anche di altri strumenti. Una delle applicazioni più semplici consiste nel fornire un tema. Io mi avvalgo spesso del volume di Duccio Demetrio, Il gioco della vita[1]; il libro presenta “trenta proposte per il piacere di raccontarsi”, trenta esercizi per, nelle parole dell’autore, rievocare (richiamare dalla penombra dell’oblio cose, fatti, sensazioni, figure),ricordare (ritrovare quelle particolari rievocazioni più significative di altre per le emozioni, gli stati d’animo e affettivi che ci fanno rivivere), rimembrare (rimettere insieme rievocazioni e ricordi per dare loro una forma, un disegno, un’architettura)[2]. Uno dei temi più rivelatori è quello del primo ricordo. Avevo già avuto modo di notare nella mia psicoterapia personale e negli studi[3] quanto esso possa essere utile per evidenziare ciò che affligge il paziente; nella mia pratica con i ragazzi, ho scoperto che spesso porta in luce una ferita infantile che ha rilevanza sulle difficoltà che l’adolescente si trova a vivere nel momento presente. Nel caso di studenti “difficili”, il racconto del primo ricordo mi ha aperto uno squarcio sulla sofferenza personale che portavano con sé nella vita scolastica. Ad esempio posso citare il caso di A., terzogenito dopo due sorelle molto più grandi di lui e seguito a distanza di tre anni dall’ultimogenita, ragazzo afflitto da patologia caratteriale non meglio identificata ma sofferta in primis da lui e poi dalla famiglia, dalla classe e dai docenti, con scoppi di violenza e difficoltà nel controllo delle proprie emozioni. Il primo ricordo lo vedeva piccolissimo muovere i primi passi e dirigersi verso il padre con le braccine sollevate per farsi prendere in braccio. Il padre, nel ricordo, gli diceva: “Ora che sai camminare non ti prenderò più in braccio.” Nei tre anni in cui A. è stato mio allievo, il padre, un signore già in pensione, anziano se confrontato con i genitori dei compagni di classe, è venuto a parlarmi una volta soltanto (la madre non è mai venuta, ma l’ho incontrata quest’anno ai colloqui per l’ultimogenita): non abbiamo avuto un vero scambio, un vero incontro; sostanzialmente ho avuto la sensazione che volesse esprimermi la preoccupazione per il difficile carattere del figlio, e che qualcosa nelle mie risposte debba averlo tranquillizzato al punto da non cercare ulteriori colloqui. L’urgenza che il figlio fosse in grado di “camminare con le proprie gambe” era avvertibile nel comportamento paterno.
Se quest’istanza è ovviamente naturale e sana nel genitore dell’adolescente (ma l’urgenza non lo è neppure nei caso di figli adolescenti), è comprensibile però come possa creare problemi al bambino quando tale tematica si presenti troppo presto: il primo ricordo di L., fratello maggiore di pochissimi mesi, risale al giorno in cui vide la sorellina gattonare; corse a chiamare la mamma nella speranza che questa sgridasse la bambina, e rimase attonito quando la mamma dimostrò gioia e prese a complimentarsi con la piccola. Che cosa ci dice questo ricordo? Che il gattonare era stato scoraggiato in L., insieme ad altri comportamenti da “bambino piccolo”, ma lui aveva solo 11 mesi più della sorellina, e dunque era un bambino piccolo, improvvisamente trasformato dalla nuova nascita nel big brother, il fratellone. E che cosa ci dice l’attenzione a questi particolari da parte dell’insegnante? Ci dice che a sua volta è una primogenita, e che questa tematica tocca un nervo per lunghissimi anni scoperto e, per fortuna sua e degli studenti che ora è in grado di accompagnare in questo specifico cammino, ormai sanato.
Il tema della paura nel veder mancare il supporto del genitore ricorre spesso nei ricordi che si riferiscono all’infanzia: V. ricorda il primo momento in cui ha pedalato da sola in bicicletta. Voltandosi indietro, e scorgendo il padre lontano, è caduta. Quanto spesso ci scordiamo che gli adolescenti, nell’ansia di andare, vorrebbero vederci ancora vicini quando scelgono di voltarsi a cercarci! In quell’occasione dal ricordo di V. era nata una discussione sui maestri, i veri maestri e quelli falsi, ed io ne avevo approfittato per raccontare la storia di Milarepa e il falso maestro. Nel libro di Osho[4], la storia è collegata alla carta dell’Autenticità, così un ruzzolone in bicicletta è stato l’occasione per un percorso di riflessione che ci ha portati dall’affidarci al maestro/genitore/insegnate che ci offre gli strumenti per proseguire nel nostro cammino, al trovare in noi stessi la forza dell’autenticità che trasforma ogni sentiero nel Sentiero.
Tra le attività che abbiamo svolto durante il circle time, voglio qui citare quella ispirata dalla mostra Africa, capolavori di un continente, tenutasi a Torino presso la GAM, Galleria d’Arte Moderna, inizialmente prevista dal 2 ottobre 2003 al 15 febbraio 2004 e poi prorogata ulteriormente per il grande successo di pubblico[5].
 
Quell’anno avevo ereditato una classe nuova, una terza con sperimentazione del Piano Nazionale dell’Informatica[6]. Tra gli allievi c’era F., la mia perla nera, una ragazza nata in Italia da famiglia congolese. Ho pensato che la mostra fosse una splendida occasione per collegare insieme diversi discorsi: le radici famigliari, lo storytelling che fa parte del programma di letteratura della terza, il lavoro di gruppo, la valutazione e l’autovalutazione…, così ho investito nell’acquisto della collezione completa delle cartoline della mostra: una trentina di riproduzioni dei capolavori esposti.
      
Avevamo già lavorato con le immagini, quindi i ragazzi non avevano bisogno di una particolare introduzione all’attività. Ho distribuito casualmente le cartoline, una a ciascuno, e ho chiesto di osservarle per alcuni minuti e poi a turno di condividere ciò che l’immagine ispirava loro. Terminato il giro di condivisione, ho chiesto di sciogliere il cerchio e di formare gruppetti di 3 o 4 persone. Con il possibile aiuto per tutti delle due uniche raffigurazioni di animali a nostra disposizione – il coccodrillo/serpente e il leopardo – ho chiesto di inventare una storia che avesse per protagonisti i personaggi delle cartoline in loro possesso.
Nella lezione seguente, dedicata alla letteratura, abbiamo affrontato l’argomento della narrazione di storie, lo storytelling, completando il libro di testo con materiale tratto dagli scritti del filosofo tedesco Walter Benjamin,[7] in modo da avere anche un panorama teorico e storico in lingua inglese per l’attività che ci apprestavamo a condurre. Infatti per l’incontro successivo di circle time avevo programmato uno storytelling contest, una gara di contastorie: il cerchio si sarebbe aperto e avremmo assunto una posizione a ferro di cavallo: sul palcoscenico immaginario così creato, i gruppi avrebbero raccontato ai compagni le storie ideate, dandone anche una rappresentazione, se lo desideravano; poi tutta la classe avrebbe votato ogni storia con un punteggio da 1 a 3:
1.                 OK!
2.                 I LIKE IT!!
3.                 I LIKE IT VERY MUCH!!!
tenendo conto del contenuto della storia e dell’abilità del narratore (o dei narratori/attori) a trasmetterla. I voti di preferenza erano un’ulteriore occasione di praticare l’arte della valutazione e autovalutazione. E anche se, comprensibilmente, vi è stata un’abbondanza di 3 punti quando si è trattato di valutare la propria performance, non è mancato chi invece ha attribuito al proprio gruppo un 1, paragonandolo alle esibizioni dei compagni. Ha vinto il gruppo che ha maggiormente teatralizzato la sua storia.
Il premio consisteva nel doppio CD dal titolo The Very Best of Africa appena pubblicato dalla casa discografica Nascente. Per la cerimonia di premiazione abbiamo spostato le sedie creando uno spazio libero al centro della classe e ci siamo messi a ballare sulle note della prima canzone dell’album dedicato all’alba (i due CD si intitolano infatti Sunrise e Sunset): “Didi” di Khaled (Algeria) . I ragazzi mi hanno poi chiesto di poter ballare le musiche che avevano con loro, e questo ha dato in seguito l’occasione di paragonare la “loro” musica alla musica tribale e di approfondire il discorso dell’“appartenenza”: al gruppo, alla “tribù”, e di come nell’adolescenza la tribù famigliare con le sue regole venga sostituita dalle tribù degli amici, o semplicemente dei “pari”, con le loro regole e i loro riti.
  
Lo sguardo sbigottito di un collega di Lettere (diplomato al Conservatorio) che, richiamato dalla musica, aveva bussato alla porta per scoprire che cosa stesse succedendo nella mia classe, mi ha indotto ad illustrargli il progetto. Questo incontro estemporaneo ci ha portato a una collaborazione sui progetti che coinvolgono la musica, e il primo risultato di questa collaborazione vedrà, il prossimo anno scolastico, l’inaugurazione nel nostro liceo di corsi pomeridiani di strumento e formazione musicale tenuti da un pool formato da esperti esterni,docenti e allievi della scuola. Un grande passo avanti, nato in una mattina di inverno dalla voglia di abbandonare sedie e banchi per muovere il corpo e lo spirito al ritmo della musica.

[1] Duccio Demetrio, Il gioco della vita. Kit autobiografico, Guerini e associati, 1997.
[2] op. cit. pag. 18.
[3] fra i molti articoli apparsi, cfr: Rita Reschiotto, “Il primo ricordo come metafora del processo psichico”, Polarità, 1993, Vo. 7, No 3, 425-431.
[4] “Milarepa and the false teacher”, Osho, Transformation TarotAutenticity
[…] It is reported about one great mystic, Milarepa: When he went to his master in Tibethe was so humble, so pure, so authentic, that other disciples became jealous of him. It was certain that he would be the successor. And of course there was politics, so they tried to kill him.
One day they said to him, “If you really believe in the master, can you jump from the hill? If you really believe, if the trust is there, then nothing, no harm, is going to happen.” And Milarepa jumped without even hesitating for a single moment. They rushed down… because it was almost a three-thousand-foot deep valley. They went down to find his scattered bones – but he was sitting there in a lotus posture, very happy, tremendously happy. He opened his eyes and said, “You are right, trust protects.”
They thought it must be some coincidence, so when a house was on fire one day they told him, “If you love your master and you trust, you can go in.” He rushed in to save the woman and the child who were left inside. He rushed in, and the fire was so great that the other disciples were hoping that he would die–but when he came back out with the woman and child, he was not burned at all. And he became more and more radiant, because the trust….
One day they were going somewhere, they were to cross a river, and they told him, “You need not go in the boat. You have such great trust, you can walk on the river”– and he walked.
That was the first time the master saw him. He was not aware that Milarepa had been told to jump into the valley and told to go into the burning house. But that time he was there on the bank and he saw Milarepa walking on the water and he said, “What are you doing? It is impossible!”
And Milarepa said, “Not impossible at all! I am doing it by your power, sir.”
Now the Master thought, “If my name and my power can do this to this ignorant, stupid man…. I have never tried it myself,”…so he tried. He drowned. Nothing has been heard about him after that.
[5] Cinque mesi per scoprire il vero spirito dell’arte africana, ovvero di quella che venne riduttivamente battezzata, nei primi anni del Novecento, come “arte primitiva” o “art nègre”. L’occasione di questa ridefinizione e rivalutazione della produzione artistica africana, dal primo millennio prima di Cristo alla fine del secolo scorso, ci è offerta dalla mostra “Africa. Capolavori da un continente”, allestita presso la Galleria Civica d’Arte Moderna di Torino, curata da Ezio Bassani, uno dei principali esperti dell’arte africana il cui impegno nel settore dura da oltre quarant’anni, e da un comitato scientifico formato dai responsabili delle collezioni di musei internazionali quali il Metropolitan di New York, ilLouvre di Parigi, il Museo di Tervuren, il Kunsthistorisches di Vienna e il Museo Nazionale di Lagos.
L’esposizione è suddivisa in quattro sezioni ognuna delle quali è finalizzata ad individuare l’immensa ricchezza visiva e plastica degli imperi africani subsahariani dal periodo precoloniale a quello postcoloniale, momento da cui inizia una produzione di oggetti artigianali destinati all’esportazione e modellati sul gusto europeo. Determinante è, inoltre, la parte dedicata a svelare lo stretto rapporto tra le antiche sculture africane e le opere degli artisti delle Avanguardie del primo Novecento quali BrancusiMatisseModiglianiPicasso e altri maestri del secolo scorso.
(Loredana Carena, http://www.scanner.it/arte/africa2461.php).
[6] Cfr. il cap. 4. Il percorso
[7] Experience which is passed on from mouth to mouth is the source from which all storytellers have drawn. And among those who have written down the tales, it is the great ones whose written version differs least from the speech of the many nameless storytellers. Incidentally, among the last named there are two groups which, to be sure, overlap in many ways. And the figure of the storyteller gets its full corporeality only for the one who can picture them both. “When someone goes on a trip, he has something to tell about,” goes the German saying, and people imagine the storyteller as someone who has come from afar. But they enjoy no less listening to the man who has stayed at home, making an honest living, and who knows the local tales and traditions. If one wants to picture these two groups through their archaic representatives, one is embodied in the resident tiller of the soil, and the other in the trading seaman. Indeed, each sphere of life has, as it were, produced its own tribe of storytellers. Each of these tribes preserves some of its characteristics centuries later. Thus, among nineteenth-century German storytellers, writers like Hebel and Gotthelf stem from the first tribe, writers like Sealsfield and Gerstäcker from the second. With these tribes, however, as stated above, it is only a matter of basic types. The actual extension of the realm of storytelling in its full historical breadth is inconceivable without the most intimate interpenetration of these two archaic types. Such an interpenetration was achieved particularly by the Middle Ages in their trade structure. The resident master craftsman and the traveling journeymen worked together in the same rooms; and every master had been a traveling journeyman before he settled down in his home town or somewhere else. If peasants and seamen were past masters of storytelling, the artisan class was its university. In it was combined the lore of faraway places, such as a much-traveled man brings home, with the lore of the past, as it best reveals itself to natives of a place. […] Walter Benjamin, Illuminations, Fontana Press 1992.

La scrittura
Il ruolo didattico della scrittura in lingua straniera è duplice: da una parte c’è lo scopo di apprendere a scrivere in inglese per esprimersi in lettere, messaggi, racconti, ecc.; dall’altra vi è la scrittura come mezzo di apprendimento. La scrittura, con l’ascolto, il parlato, e la lettura, fa parte delle quattro abilità base della lingua; di recente si è aggiunta una quinta abilità che non ha ancora trovato un’etichetta precisa: in vari contesti didattici è stata definita “l’uso della lingua in contesto” o l’“interazione”, ma io ho scelto di adottare la definizione di relazione. Se l’ascolto e il parlato permettono un uso più ovvio della relazione interpersonale, la scrittura fornisce un ottimo strumento per l’esplorazione della relazione intrapersonale.
In questo capitolo non prendo in considerazione i writing skills che sono richiesti agli esami di lingua inglese:
  • taking notes
  • writing a passage from notes
  • writing formal letters
  • writing informal letters
  • writing e-mails
  • writing a resume.
prendere appunti, trarne un brano, scrivere lettere formali, informali, email e il curriculum vitae –obiettivi non difficilmente raggiungibili, se paragonati a quanto chiedo ai miei allievi di scrivere –, quanto piuttosto le varie occasioni di scrittura che si possono sollecitare durante le lezioni per approfondire il percorso psicosintetico che, nella mia programmazione, corre parallelo allo sviluppo della conoscenza della lingua e della cultura dei paesi di lingua inglese. Al di là degli sporadici esercizi di scrittura libera proposti dai libri di testo, sin dal primo anno, abituo i miei studenti a fissare per iscritto anche solo con una frase, le esperienze fatte durante il circle time, con particolare attenzione non alla descrizione dell’esperienza stessa, ma al vissuto personale durante l’esperienza, o di quanto la stessa abbia poi lasciato nei giorni a seguire.
Riporto qui di seguito i commenti raccolti all’inizio dell’anno scolastico in una seconda, dopo uncircle time centrato sulla postura del corpo e sulla musica, in cui i ragazzi avevano letto alcune fotocopie sull’argomento: “Straighten Up” e “Find Your Song and Play the Music”[1] e ne avevano discusso a piccoli gruppi:
F.: Scrivere cosa “ci siamo portati a casa” dalla lez. precedente. I took at home by the last lesson the fotocopy (ovviusly) and the thing that S. don’t like the music, but she like sing chinese song.
G.: From that lesson I brought at home some relax. In fact, even if there was “a lot of noise” I found to concentrate on the reading. I also brought at home some new English words. I think these lessons are very important for the English understanding because in my opinion when we are calm we can learn every thinghs.
M.: In this English’s hour, I understand that music and my body is very important. Music is energy and strong, it helps me in sad moments. When we listen to the music every day, I’m in the same opinions of photocopies. I think much of many things of photocopies, for example, I sometime have an ugly posture and this is wrong because I don’t breathe well.
R.: Last Tuesday I learnt the right posture of my body. The music for many people is very important. And the people listened the music to be indipendents for the other of the world.
G.: The music is a kind for feel good and esprimersi.
F.: Last lesson I read very important things about music but music is already present in my life and I often listen it.
I.: In last Tuesday, I took at home specially two arguments: English and the spirit of music. For the English I learnt some new vocabulars. For the music I understood that for some persons the music is a mode to be free. For some people to listen the music is as to be indipendent from the other of the world.
F.: In the last English lesson of CIRCOL TIME I learnt posture of my body influence the immission of oxygen of 30 percent in less and the less immession of oxygen in my body influence my energy and reduct my attention at the lessons. This theory is studied by Rene Caillet, M.D:, chairman of the department of physical medicine at the Santa MonicaHospitalCenter.
The link between our posture is bi-directional and posture can affect your attitude, just as attitude affect your posture. In fact when I stay in wrong posture I do less actention and I begin sbadigliare.
A.: After the sixth hour I took at home the work that I do in class with my friends, the new word I learn new things and I enjoy, because I think that is a good way to spend the last hour.
Inizialmente avevo cominciato a correggere la grammatica e la sintassi delle frasi che mi erano state consegnate, ma poi ho pensato che sarebbe stato più utile tenere da parte i fogli e riproporli ai ragazzi verso la fine dell’anno, da una parte per richiamare l’attività svolta e dall’altra perché auto-correggendosi potessero notare di persona i progressi linguistici compiuti nel corso dell’anno. Se è utile che io fornisca loro gli strumenti per esprimersi correttamente in inglese, è pur vero che una pagina piena di correzioni (anche se non uso mai la penna rossa, ma piuttosto un bel turchese, il colore della comunicazione) può essere molto demoralizzante. Ho trovato utili alcuni consigli di esperti didatti della lingua[2]:
    • Ask the students to underline the things they are not sure of or where they would like your help – you need only then correct the things they have identified.
    • Limit yourself to no more than six to eight points for correction.
    • Rather than focusing on the form of what they have written, respond to the message. Write a brief reply to the ideas they have expressed.
    • Rather than correcting, give hints or clues and encourage the students to correct their own work. You can use a marking scheme (e.g. Sp = spelling, WW = wrong word, and so on).
A seconda dell’occasione chiedo agli studenti di sottolineare le cose su cui non si sentono sicuri o per le quali chiedono il mio aiuto e correggo soltanto quelle; oppure mi limito a correggere i punti più importanti; invece di concentrarmi sulla forma dello scritto, mi relaziono al messaggio con un breve commento sulle idee espresse; oppure – come in questo caso – segnalo le imprecisioni e li incoraggio ad auto-correggersi. Per fortuna, non devono imparare tutto in un giorno o in un anno: ho davanti un lustro di apprendimento con loro…
A mano a mano che gli anni scolastici procedono, e la conoscenza linguistica degli allievi aumenta, l’uso della scrittura come processo formativo diventa sempre più importante. Dagli spunti di Il gioco della vita si passa alla scrittura del diario come compito delle vacanze, fino a giungere alle profonde introspezioni della quinta, stimolate anche dalla ricchezza del materiale letterario che è in programma durante l’ultimo anno.
L’uso della scrittura introspettiva è particolarmente fertile quando viene ispirato o collegato alle immagini, anche sotto forma di film. L’approfondimento dedicato alla letteratura del terrore, per esempio, con la visione dei film Bram Stoker’s Dracula (1992) di Francis Ford Coppola,Interview with the Vampire (1994) di Neil Jordan, e Mary Reilly (1996) di Stephen Frears, ha suscitato prima una discussione sul lato ombra dei personaggi e su quello di ognuno di noi, poi sull’inestricabilità di luce e ombra/bene e male, quindi sul meccanismo della proiezione e alla fine ha condotto alla stesura di un tema che verteva a scelta su una delle seguenti tracce:
1.        In Interview with the Vampire each vampire has a “dark gift.” Think about one of your faults, what “gift” does it bring?
2.        Lestat says, “You are what you are.” What are you? As far as you know yourself, how would you describe yourself?
3.        In Mary Reilly, Jekyll/Hyde speaks about being “the knife as well the wound.” Can you think of any instance in which, by inflicting a suffering on somebody, you suffered yourself?[3]
Un altro tipo di scrittura che riscuote grande successo è la scrittura poetica. In genere cominciamo con i kit della Magnetic Poetry, i piccoli magneti con le parole che, pescate dagli studenti e riassemblate sui banchi, o ancora meglio: sulle porte metalliche dei grigi armadi di classe, formano poesie.
La storia di come siano nate queste paroline magnetiche è di per sé un’occasione di riflessione sulle vie misteriose che l’ispirazione è in grado di seguire:
It all started with a song and a sneeze. Dave Kapell, founder of Magnetic Poetry, was suffering from writer’s block while trying to compose song lyrics. To overcome this problem, he wrote down interesting words on pieces of paper and rearranged them, looking for inspiration. What he hadn’t figured into this experiment was his allergies. One good sneeze and any progress was sent flying across the room. Dave decided to glue the words to pieces of magnets and stick them to a pizza tin. Then he got hungry and the now magnetized words made their way to the refrigerator door. Before too long, Dave wasn’t the only one rearranging his would-be song lyrics. When friends came over, Dave noticed they started to move the magnets around, amusing themselves by writing the first magnetic poems.

After seeing his friends having fun, Dave thought he might be able to sell his word kits at a local craft fair. He made up 100 kits and set up shop at Calhoun Square, a mall in the Uptown area of Minneapolis. All 100 kits were gone after 3 hours. That night, he recruited as many friends as pizza and beer could draw and made up more kits–all of which sold as rapidly the next day.

From these beginnings, Magnetic Poetry® has now sold over three million word kits, over one billion word tiles.[4]

 
Dal blocco dello scrittore, alla benedizione dell’allergia che con uno starnuto fa volar via le parole scritte su piccoli pezzi di carta, questi piccoli magneti sono davvero magnetici, in grado di dissipare l’aura di ieraticità che circonda la poesia nella scuola e di permettere agli studenti, che inizialmente possiedono un vocabolario personale assai limitato, di scoprirsi poeti. Dapprima le parole vengono distribuite o prese a caso e dalla manciata, in gruppo, si produce un piccolo componimento che somiglia agli haiku giapponesi, o alla poesia ermetica italiana; poi a poco a poco gli studenti prendono confidenza e cominciano a comporre individualmente, cercando le parole che hanno in mente, e alla fine compongono le loro poesie senza ricorrere all’aiuto dei mattoncini magnetici.
Quest’anno in quinta, dopo aver studiato “Song of Myself” di Walt Whitman[5], fra le tracce dei temi assegnati ho anche proposto di scrivere il proprio “Canto di me stesso”, corredandolo di domande per i lettori, proprio come i testi dei “grandi” poeti presentati dal libro di testo.

[1] Tratte dal volume di Jon Gordon, Energy Addict, 101 Physical, Mental, & Spiritual Ways to Energize Yor Life, Perigee 2003. La fotocopia  presenta l’argomento in breve, evidenziando una citazione che lo riassume, e proponendo gli ACTION STEPS, i passi per mettere in azione corpo, mente e spirito e produrre l’effetto desiderato.
[2] Andrew Littlejohn and Diana Hicks “A to Z of Methodology”, Cambridge English for Schools Teacher’s Books.Cambridge University Press.
[3] In Intervista con il vampiro, ogni vampiro ha un “dono oscuro”. Pensa a un difetto che ti riconosci, che “dono” porta con sé? / Lestat dice: “Sei quello che sei.” Che sei tu? Nella misura in cui ti conosci, come ti descriveresti? / InMary Reilly, Jekyll/Hyde afferma di “essere insieme il coltello e la ferita.” Ricordi qualche circostanza in cui hai sofferto nell’infliggere una sofferenza?
[4] http://www.magneticpoetry.com/story.html.
[5] 1 .I CELEBRATE myself, and sing myself, / And what I assume you shall assume, / For every atom belonging to me as good belongs to you. // I loafe and invite my soul, / I lean and loafe at my ease observing a spear of summer grass. // My tongue, every atom of my blood, form’d from this soil, this air, / Born here of parents born here from parents the same, and their / parents the same, / I, now thirty-seven years old in perfect health begin, / Hoping to cease not till death. // Creeds and schools in abeyance, / Retiring back a while sufficed at what they are, but never forgotten, / I harbor for good or bad, I permit to speak at every hazard, / Nature without check with original energy.
2 . Houses and rooms are full of perfumes, the shelves are crowded with perfumes, / I breathe the fragrance myself and know it and like it, / The distillation would intoxicate me also, but I shall not let it. // The atmosphere is not a perfume, it has no taste of the / distillation, it is odorless, / It is for my mouth forever, I am in love with it, / I will go to the bank by the wood and become undisguised and naked, I am mad for it to be in contact with me.
 

 

 

Show and tell
Altro strumento estremamente utile si è rivelato lo show and tell o, nella traduzione che si trova nei classici fumetti dei Peanuts, il “mostra e dimostra”. È una pratica didattica di cui i bambini americani fanno esperienza fin dall’asilo; si potrebbe dire che è il primo passo nell’apprendimento della retorica. Il bambino, e poi ragazzino delle elementari, porta in classe uno o più oggetti e lo illustra ai compagni. Conoscevo lo show and tell fin da quando ragazzina leggevo i fumetti di Charles Schultz, ma non avevo mai pensato di utilizzarlo in classe, fino a quest’anno quando mi sono trovata con una terza un po’ difficile.
È una classe formata dalla confluenza di due diverse seconde, per certi versi una classe spaccata a metà, con una preparazione differente in quasi tutte le materie. Per quanto riguarda l’inglese quasi non vi è la fascia media: ci sono alcuni ragazzi che conoscono molto bene la grammatica, e molti altri che ne hanno solo delle basi malferme; la più parte non è abituata ad esprimersi in inglese, molti non sono abituati a uno studio sostenuto e continuativo, e i risultati delle interrogazioni lasciavano molto a desiderare. Come correttivo in un primo momento avevo chiesto, quale argomento su cui ottenere una valutazione orale, di raccontare ai compagni la storia di un libro o un di film che avevano particolarmente amato. L’interrogazione era stata un po’ più vivace, ma il risultato globale lasciava ancora a desiderare, e inoltre non potevo continuare sul medesimo soggetto per tutto l’anno. Così un giorno, stanca di reciproche delusioni, ho pensato che se avessero potuto parlare di un argomento che stava loro veramente a cuore, forse si sarebbero impegnati maggiormente e ne avrebbero ottenuto più soddisfazione. Ho dunque istituito l’ora di show and tell e quando ne ho parlato con loro, qualcuno ha riconosciuto l’attività per averla vista nei cartoni animati dei Simpsons e questo ha dato una spinta in più al mio progetto. L’attività non avrebbe ricevuto un voto formalizzato, ma con la classe abbiamo convenuto dei criteri sulla base dei quali valutare la riuscita della performance. Avremmo dato da 1 a 5 punti (se si fa una scala da 1 a 10 i ragazzi “confondono” il punteggio con i voti) per la parte dello show, ossia per gli oggetti portati e per il modo in cui questi contribuiscono a illustrare il punto che lo studente si propone di illustrare; 5 punti per il tell, ossia per l’abilità linguistica con cui viene presentato l’argomento; e 5 punti per il risultato globale della performance.
L’iniziativa ha avuto un successo strepitoso. I ragazzi hanno speso molte energie per prepararsi in inglese su un tema che stava loro a cuore, e hanno avuto modo di mostrare all’insegnante e ai compagni lati di sé che normalmente non vengono messi in luce a scuola: R. ha portato l’arco medievale con cui partecipa alle rievocazioni di battaglie storiche, ci ha mostrato la corazza con cui si protegge il petto e le diverse punte delle frecce, alcune di sua produzione; P. ci ha parlato dei suoi corsi di doppiatore e dell’esperienza di aver doppiato un personaggio del cartone animato South Park; V. ci ha descritto in ogni dettaglio il suo violino e l’ha suonato per noi; G. ci ha preparato i biscotti con una coreografia degna della Prova del cuoco; A. ci ha raccontato della sua esperienza di volontario della Croce Verde, improvvisando con i capi in dotazione una sfilata di moda che ha simpaticamente coinvolto i compagni di classe; G. ha portato il tappo dello spumante con cui la sua famiglia ha festeggiato il capodanno del 2000 raccontando le paure che ha provato bambino temendo che allo scoccare dell’ultimo rintocco il mondo finisse, e di come il giorno seguente si sia burlato di chi raccontava di aver temuto la stessa fine; P. e F. ci hanno mostrato un programma per computer che simula la consolle del d.j., e per farci apprezzare l’aspetto musicale hanno costruito un amplificatore e una cassa in cartone perfettamente funzionante, raccontandoci poi in un inglese assai corretto dell’intuizione che il cartone sarebbe stato il materiale giusto e di come, superata l’incredulità davanti all’intuizione, abbiano fabbricato la cassa e ne abbiano sperimentato l’efficacia… Abbiamo visto tutu e scarpette da danza, pattini da ghiaccio, divise da giocatori di hockey su ghiaccio, trofei vinti, collezioni di numismatica, foto di viaggi, la vita di Cassius Clay raccontata con l’ausilio di giocattoli, ricordi di concerti, di gare olimpiche, della squadra del cuore, del cantante preferito…
Davanti a tanta creatività e passione, l’aspetto della valutazione è passato in ultimo piano, anzi a un certo punto i ragazzi se ne sono scordati del tutto. Ma l’iniziativa è tanto piaciuta che ho pensato di proporla nelle altre classi. E in prima, dove lo sforzo linguistico è stato maggiore, i primi tre classificati secondo la valutazione della classe (e l’autovalutazione) hanno ricevuto in premio 3 volumetti di letture facilitate in inglese.
La voce è corsa per la scuola, due colleghe hanno inserito lo show and tell nelle loro lezioni e ne sono entusiaste. Dal mio canto, sono felice di aver conosciuto aspetti dei miei studenti che diversamente avrei forse continuato a ignorare per tutto il corso di studi. Anche fra compagni molti non erano al corrente degli hobby e delle passioni del vicino di banco. E il loro inglese è migliorato. I ragazzi sono stati esposti a una ricchezza di vocabolario su temi che normalmente non sono affrontati sui libri di testo, e hanno avuto la soddisfazione di vedere che la loro comunicazione era efficace e che le loro passioni suscitavano l’interesse dei compagni. In molti casi lo show and tell, nonostante la difficoltà linguistica, si è rivelato un tonico per l’autostima. Su elaborazione dell’esercizio da parte di un’altra insegnante, stiamo ora raccogliendo le relazioni e le classi stanno costruendo un faldone o addirittura dei CD-Rom o un sito che raccolgano tutti i loro materiali. La creatività è infettiva!

Inglese al cinema
Ho scoperto la Cinematerapia per uso personale in uno dei periodi più difficili della mia vita. Uscivo da una separazione, con una bambina piccola a cui provvedere e una situazione economica assai diversa da quella in cui avevo precedentemente vissuto. Lavoravo molto e quando tornavo a casa cercavo di dare il meglio di me per accompagnare mia figlia attraverso un processo di crescita assai doloroso anche per lei. Con il passare del tempo avevo trovato due oasi nel corso del mese, o piuttosto due stazioni di servizio, in cui ricaricarmi e rimettermi letteralmente in carreggiata: i due weekend che V. passava col papà, ma in genere vi giungevo così emotivamente spossata che non riuscivo a trovare nulla da cui attingere carburante. Cominciai ad andare da Blockbuster e affittare tre o quattro videocassette (non esistevano ancora i dvd) che guardavo nel finesettimana. Dapprima credevo di farlo soltanto per passare il tempo senza “pensare” o disperarmi, e anche per vedere i film che, tutta presa dal fare la mamma, mi ero persa nelle stagioni precedenti, ma presto capii che quelle immagini avevano un valore terapeutico per me. Piangevo “per altri”, quando non riuscivo a esternare neppure a me stessa la mia sofferenza, a volte ridevo, ritrovando la gioia che da tempo non mi abbandona più, anche nel dolore. Consapevole dell’effetto che la visione stava avendo su di me, cominciai a cercare film conosciuti che mi avrebbero portato sulla tematica che mi interessava in quel momento, e poi attraversai una fase in cui mi lasciavo guidare dall’intuito: passeggiavo tra gli scaffali e coglievo i titoli o le immagini di copertina che mi “ispiravano”. Certo non fu sufficiente a traghettarmi sull’altra sponda della consapevolezza, ma il cinema ha accompagnato sei anni di psicoterapia e quattro di counseling, agevolando i miei processi trasformativi e diventando a poco a poco uno strumento anche nella mia pratica di insegnante.
Non ho inventato io la Cinematerapia, né l’hanno inventata gli psicoterapeuti e i counselor che la usano nella loro pratica individuale e di gruppo: nel mondo occidentale era uno strumento utilizzato già dai Greci antichi che usavano il dramma come catarsi delle proprie emozioni. Nella scuola da molti anni si fa uso di film, anche in lingua straniera, ma prima dell’avvento dei dvd dovevo aspettare l’uscita di qualche cassetta sottotitolata per proporre ai miei allievi la visione di un film in inglese, e per quanto ne venissero pubblicate un paio ogni mese, non era facile trovare il tema che incontrasse ciò su cui la classe stava lavorando al momento; le risorse personali poi non concedevano certo una cineteca sconfinata e così formammo un pool di amiche insegnanti per procurarci le risorse e condividere le esperienze. Alcune di noi lo usavano solo come strumento di apprendimento linguistico, altre come la versione contemporanea della narrativa, per me è diventato presto un potenziale e potente strumento di trasformazione.
Cindy Jones[1] descrive il processo cognitivo ed emozionale attraverso la cinematerapia in quattro stadi :
  • Dissociazione: il cliente sente il dialogo e guarda i personaggi del film come se fossero lontani o estranei al suo quadro di riferimento interiore;
  • Identificazione: il cliente comincia a identificarsi con una scena, un episodio, una situazione o un individuo che non appartiene al suo mondo interiore;
  • Interiorizzazione: il cliente dapprima si sente partecipe dei sentimenti provati attraverso il rapporto vicario con uno o più personaggi, scene, situazioni, e poi se ne appropria: li riconosce come propri;
  • Transfert: il rapporto con un personaggio ecc., e i sentimenti e i pensieri che ne risultano, si fa strada nella consapevolezza del cliente. Ora può esaminare, in un ambiente sicuro e protetto, le questioni che prima erano tenute “a distanza”, là fuori, e può riconoscere la propria empatia nei confronti dei personaggi, scoprire che non è il solo a provare ciò che sente, ed essere in grado di esaminare le proprie sfide e i propri trionfi.
La visione di un film, grazie anche al lavoro che la precede, l’accompagna e la segue, diventa non solamente un momento di intrattenimento, ma un evento pratico-esperienziale attraverso cui si migliora l’auto-conoscenza e la consapevolezza dei nostri nodi esistenziali, e se adeguatamente sostenuta dalla discussione seguente (per cui è centrale il circle-time, ma anche fra le tecniche che adotto in classe: il disegno libero o la ricerca di immagini, e la scrittura), può offrire strumenti concreti per modificare la propria esistenza, migliorando la qualità della vita.[2]
L’effetto sull’apprendimento della lingua poi è grandemente potenziato dalla sinestesia di immagini e suoni: le parole pronunciate dai personaggi vengono udite e contemporaneamente visualizzate nei sottotitoli, e questa percezione si lega alle immagini che scorrono e alla musica, diegetica e non. Il tutto con un impatto emotivo sullo spettatore, mentre l’inconscio processa tutti questi stimoli collegandoli, come Assagioli ha suggerito, con l’apprendimento della lingua straniera in situazioni in cui i ragazzi non potrebbero oggettivamente trovarsi nelle normali ore di lezione in classe. Fanno così esperienza di mondi che potrebbero in futuro visitare, e già li vivono nel presente della loro psiche. Per questo l’insegnante ha grande responsabilità nella scelta dei contenuti da proporre e nel momento in cui li propone. Esistono ormai diversi testi, più o meno “leggeri” o “scientifici”, che suggeriscono varie guide a film suddivisi per tematiche e occasioni; possono essere strumenti utili ma, a mio giudizio, è importante che l’insegnante sia consapevole di che cosa sta proponendo ai suoi allievi, e dell’effetto che il film ha avuto su di lui e potrebbe avere sui ragazzi. Soprattutto è importante che l’educatore sia flessibile e pronto a mettersi in gioco con qualsiasi tematica, per quanto inaspettata, le immagini possano suscitare. Io stessa ho trasgredito al principio che mi sono data, proponendo qualche film di cui avevo conoscenze solo di seconda mano (per esempio Finding Neverland), ma prima di ogni visione mi affido sempre al più grande Regista del mondo (dell’Universo direi) che sa guidarci attraverso le imperfezioni degli Strumenti.
Da qualche anno è disponibile uno strumento prezioso per chi volesse introdurre anche brevi visioni “with a heart and soul” all’interno della lezione. Per circa 22 euro, lo Spiritual Cinema Circle[3] invia ai suoi soci (tra cui anche Bono degli U2, i ragazzi in genere vengono colpiti da questa informazione) un dvd al mese contenente un lungometraggio, un documentario e due corti; film che, nelle parole del co-fondatore Stephen Simon, “risvegliano un senso di gioia e meraviglia, ispirano amore e compassione, evocano un senso profondo di collegamento con l’universo che ci circonda”, e che sono interessanti e divertenti, thought provoking, come posso assicurare personalmente. L’unico problema è che fino al mese scorso, mentre i film stranieri apparivano in lingua originale con sottotitoli in inglese, quelli in inglese non erano sottolineati e questo li rendeva troppo difficili per i ragazzi, ma da questo mese il sottotitolaggio è completo e tutti (compreso gli hard of hearing, i “duri d’orecchi”, come vengono definiti nei menu interattivi dei dvd inglesi e statunitensi) potranno godere di questo servizio veramente prezioso, poiché molti di questi gioielli non vengono mai distribuiti nei cinema o alla TV italiana.
Una parola ancora sull’uso delle immagini tout court: in passato ero un persona molto “verbale”, con difficoltà di visualizzazione e una particolare simpatia per la parte sinistra del cervello; cinque anni di pratica psicosintetica mi hanno portato ad apprezzare il potere evocativo e trasformativo delle immagini, e poiché, nonostante l’esercizio, le mie visualizzazioni non sono propriamente ancora da Oscar, colgo ogni occasione per focalizzare l’attenzione mia e degli studenti sulle immagini, a volte includendole anche come spunti nelle prove di verifica.

[2] Cfr. A Mercurio, http://www.cinematerapia.it.

Il gioco
Come ho già detto a proposito della visualizzazione sulla città del gioco e la città del lavoroproposta da Piero Ferrucci,[1] il mio ideale di scuola è un luogo in cui giocando si impara e si lavora. Il filosofo olandese Johan Huizinga ha descritto il gioco come un complesso sistema culturale: “ciò non significa che il gioco muta o si converte in cultura, ma piuttosto che la cultura, nelle sue fasi originarie, porta il carattere di un gioco; viene rappresentata in forme e stati d’animo lucidi: in tale ‘dualità-unità’ di cultura e gioco, gioco è il fatto primario, oggettivo, percepibile, determinabile concretamente[…]”[2] La psicologia ha visto, con Jean Piaget, nel gioco una forza attiva per l’evoluzione cognitiva e con Lëv Vygotskij uno strumento per l’evoluzione affettiva e la strutturazione della personalità.
Molti sono i manuali apparsi a partire dagli anni ’90 che presentano giochi da utilizzare non soltanto in modo episodico, ma da integrare a livello pervasivo nella didattica; tra i miei preferiti c’è Gioco e dopogioco[3], i giochi sono divisi in sei gruppi:
  • conoscere gli altri, un gioco “a somma diversa da zero” dove tutti vincono, sempre;
  • conoscere se stessi, attraverso un laboratorio di relazione umane;
  • valutare, un metodo per ridurre l’ansia associata ai momenti di valutazione, evitando “sia la Scilla della meritocrazia spinta, sia la Cariddi dell’egualitarismo anonimo”;
  • comunicare, l’argomento più paradossale dell’esistenza umana: onnipresente e autoreferente;
  • problem solving, come superare i limiti della nostra razionalità;
  • competere e negoziare, la sezione che mostra in modo più evidente l’esigenza di un pensiero sistemico-relazionale.
Per ogni gioco viene dato il grado di difficoltà: calmo, poco mosso, mosso, indicazioni riferite aipartecipanti (numero, se gruppi già costituiti, se liberi di girare per la stanza o in cerchio ecc.); la durata e l’occorrente. Ciò che trovo particolarmente interessante del volume è che dedica anche una sezione considerevole al debriefing, ossia all’analisi post-esperienza che consente di esaminare quando è avvenuto durante il gioco al fine di trasformare l’esperienza ludica in un apprendimento esperienziale, offrendo molti suggerimenti su come si possa facilitare il processo.
Del volume L’ABC delle mie emozioni[4], basato sulla terapia cognitiva-emotiva-comportamentale (REBT) ideata dallo psicologo statunitense Albert Ellis, apprezzo in particolare che i giochi proposti aiutano a identificare i pensieri che creano problemi (assolutistici, catastrofici, d’intolleranza, di svalutazione globale di sé o degli altri, d’indispensabilità e le generalizzazioni) e insegnano a trasformarli attraverso il dialogo interiore in una educazione razionale-emotiva che persegue gli obiettivi di:
  • favorire l’accettazione di se stessi e degli altri;
  • aumentare la tolleranza alla frustrazione;
  • saper esprimere in modo costruttivo i propri stati d’animo;
  • saper individuare i propri modi di pensare abituali;
  • imparare il rapporto tra pensieri ed emozioni;
  • incrementare la frequenza e l’intensità di stati emotivi piacevoli;
  • favorire l’acquisizione di abilità di autoregolazione del proprio comportamento.[5]
integrando i giochi in lezioni strutturate all’interno delle materie curricolari che maggiormente si prestano a tale integrazione, nel mio caso: nelle ore di inglese!
L’ultimo testo che citerò (ma sono sempre alla ricerca di nuovo materiale), è Creative Therapy[6] in cui a ogni esercizio/gioco viene chiesto di dare un’espressione grafica. Ad esempio un gioco da proporre a un gruppo appena formato, per conoscersi meglio: a tutti viene distribuita un’illustrazione che riproduce il contorno di una finestra, ognuno deve disegnare ciò di cui sente la mancanza e che potrebbe trovarsi fuori dall’edificio scolastico. Poi vengono condivisi i disegni, illustrando ciò che ci manca e i nostri sentimenti al riguardo. Una variante è di immaginare fuori dalla finestra ciò di cui abbiamo paura. Da questa condivisione, attraverso altri strumenti, può partire un’integrazione delle parti “mancanti”, o un’evocazione del coraggio. “La creatività si organizza nel favorire nuove risposte a situazioni sconosciute, nel produrre le energie necessarie per esplorare mondi esterni e interni, per attuare i cambiamenti, per superarsi e per modificare forme arcaiche di pensiero e di comportamento.”[7]
Tra i giochi che facciamo, uno dei miei preferiti è la simulazione, o meglio l’emulazione della trasmissione televisiva Per un pugno di libri. Nella trasmissione, due squadre provenienti dall’ultimo anno di corso di vari licei italiani si scontrano rispondendo a domande su un romanzo prestabilito. Lo schema del gioco prevede una sfida sul PRIMA O DOPO? cioè i fatti accaduti prima o dopo la pubblicazione del romanzo; sul VERO O FALSO? relativa a episodi del romanzo, FUORI L’AUTORE in cui bisogna indovinare gli autori di romanzi che possono in qualche modo richiamare il tema del testo oggetto della trasmissione, e quindi una specie di LASCIA O RADDOPPIA con domande da quiz nozionistico sul testo in questione. Per ogni risposta esatta i ragazzi vincono uno o più libri. In genere chiedo agli allievi di quarta di leggere un libro del programma di quinta durante le vacanze e, alla ripresa della scuola, la classe si divide in due gruppi e si sfida. Tutti vincono qualcosa (perché durante i primi due esercizi, se una squadra risponde esattamente riceve il libro, se sbaglia: il libro va agli avversari), e i libri che metto in palio sono quelli che ogni anno destino al Bookcrossing.[8] Ai ragazzi il gioco piace molto e hanno proposto di portare loro stessi un bottino di libri da condividere per poterne fare più edizioni nel corso dell’anno.


[1] Cfr. p. 23.
[2] J. Huizinga, Homo ludens, (1938), tr. C. van Schendel, Einaudi, 2002.
[3] P. Marcato, C. del Guasta, M. Bernacchia, Gioco e dopogioco con 48 giochi di relazione e comunicazione, Edizioni La Meridiana, 1995, II ed. 1997.
[4] M. Di Pietro, L’ABC delle mie emozioni. Corso di alfabetizzazione socio-affettiva, Edizioni Erickson, 1999.
[5] Ibidem. p. XIII.
[6] J. Dossick, E. Shea, Creative Therapy. 52 exercises for groups (1988), tr. it. di B. Maccarrone, Pedagogia creativa, Edizioni Scientifiche Magi, 2002.
[7] G. Pesci nella “Prefazione all’edizione italiana”, J. Dossick, E. Shea, op. cit. p. 7.
[8] Cfr. http://www.bookcrossing.com/mybookshelf. Anni fa mi ero resa conto di aver sviluppato un grande attaccamento ai miei libri, non riuscivo a staccarmi neppure da quelli che non mi piacevano e che non avrei mai letto. Poi ho scoperto il Bookcrossing, un’organizzazione ormai diffusa in tutto il mondo, fondata nel 2001 da Ron Hornbaker che ebbe l’idea di creare un sito per registrare i libri che si volevano lasciare liberi per il mondo, dando la possibilità a più gente possibile di leggerli. Ho trovato così il modo di conservare un legame virtuale con i miei libri, staccandomene fisicamente, e in due anni e mezzo ho “liberato” 200 volumi, alcuni dei quali in giro per il mondo, altri nelle mani – almeno temporaneamente – dei miei allievi.

Valutazione e autovalutazione
Dentro di me si agita un Puffo Brontolone che con voce infantile e nasale ripete ad ogni occasione: “Io odio la valutazione!” Per quanto gli insegnati di lingua inglese abbiano cominciato forse prima di altri ad affrontare corsi di aggiornamento sulla valutazione, in virtù del collegamento con il pragmatismo di matrice anglosassone e con l’esigenza di preparare gli allievi alle prove di certificazione linguistica internazionali somministrate da istituzioni esterne, ossia l’“eterovalutazione” nello slang didattico attuale, la valutazione è per me l’elemento più ostico della mia professione, anzi forse l’unico elemento ostico. Se non ho problemi a valutare i test, poiché ogni voto suggerisce semplicemente il livello di acquisizione delle competenze e conoscenze dello studente rispetto all’argomento o agli argomenti oggetto della verifica, in base a un punteggio prestabilito e a tutti noto – un sistema, in fondo, impersonale, peccato che io lo giudichi sostanzialmente inadeguato, poiché si limita a valutare un prodotto e può essere utile soltanto per rilevare l’andamento complessivo di un gruppo – ho grande difficoltà nella valutazione delle prove orali o delle produzioni creative scritte, in cui lo studente esprime assai più della conoscenza o meno della materia. Mi pare che conseguire una votazione su quanto di sé si mostra all’insegnante e alla classe non sia il modo migliore per potersi esprime appieno creativamente. Purtroppo la scansione dell’anno scolastico richiede numerose prove da valutare, e peraltro i ragazzi abituati da almeno otto anni di scolarità a considerare il voto come l’indicatore del successo o dell’insuccesso scolastico, desiderano essere valutati, desiderano vedere comparire un numero (possibilmente superiore al 6, meglio se vicino al 10) accanto al loro nome sul registro. Il mio vissuto personale si scontra con le ricerche comprovanti che “le prime esperienze sull’apprendimento hanno dimostrato che i soggetti imparano meglio quando sono costantemente oggetto di una valutazione di cui comprendono il fondamento atto ad aiutarli a determinare se stanno procedendo bene”[1]. Io ho problemi a considerare il soggetto davanti a me come oggetto di valutazione. Tuttavia a fine trimestre e a fine anno sono tenuta a esprimere dei giudizi numerici sull’acquisizione da parte dei miei studenti dei contenuti proposti; il mio giudizio concorre a determinare se l’anno successivo lo studente potrà affrontare un nuovo percorso didattico o se debba ripetere quello appena terminato; e alla fine del quinquennio il credito accumulato sulla base, anche, del mio giudizio concorrerà a determinare il voto dell’esame di stato (che opportunamente non si chiama più il voto di maturità). Dunque devo dare i voti, e nel contempo non voglio sottostare a un uso coercitivo della valutazione. Devo (non come un dettato del Super-io, ma come una forte esigenza interiore di crescita mia personale) distaccarmi da quella parte di me che darebbe 6 agli studenti solo perché sonopresenti, non nel senso di seduti ai loro posti nel banchi, ma nel senso di partecipi alle attività che svolgiamo, e poi di lì in su si sposterebbe ad assegnare un punteggio sulla qualità della loro presenza, sul percorso individuale e di gruppo che hanno compiuto…, e devo integrare le due tendenze opposte: la richiesta che la scuola mi fa di una valutazione finale che assolve un compito fiscale e invece il mio interesse centrato su unavalutazione formativa che ha lo scopo di stabilire di che cosa abbia bisogno il singolo studente per assimilare pienamente l’apprendimento, per trovare una sintesi che, oltre a “fotografare” le prestazioni degli allievi nell’apprendimento della lingua inglese, sia anche uno strumento di crescita per tutti noi.
In un certo senso mi sento molto più vicina al sistema della scuola dell’obbligo, dove accanto agli strumenti quantitativi si applicano strumenti di valutazione qualitativi: “La valutazione a cui si giunge è globale perché colloca i dati ottenuti dalla misurazione all’interno di un’analisi globale della situazione in cui avviene l’apprendimento. L’osservazione (classroom observation), strumento prioritario per l’analisi qualitativa, accentua il ruolo del docente come soggetto che raccoglie in modo sistematico e continuativo le informazioni sullo sviluppo delle conoscenze e delle abilità, sulla disponibilità ad apprendere, sulla costruzione della personalità.”[2] L’osservazione sistematica si rivela metodologia assai rigorosa soprattutto se corredata dalla produzione di una documentazione utile ai fini autovalutativi e anche come testimonianza consultabile e condivisibile del lavoro svolto. In questo modo la valutazione è parte integrante del processo di insegnamento-apprendimento e quando viene condivisa all’interno della classe e del consiglio di classe assume una caratteristica sistemica.
 
Quali sono le caratteristiche della valutazione sistemica, che è quella che garantisce, meglio di ogni altra, la convergenza delle diverse modalità di valutazione?
I suoi punti di forza sono:
– riesce a rendere conto del processo in cui è avvenuta la formazione;
– riesce a comprendere nella valutazione ogni aspetto del sistema;
– dipende da osservazioni accurate e costanti di alcuni parametri che vengono scelti come indicatori del cambiamento;
– non si limita all’indagine del fenomeno ma ne ricerca le cause;
– si svolge in un tempo lungo;
– si serve di strumenti di misura attendibili, sia di tipo qualitativo che di tipo quantitativo integrati fra loro.
La valutazione sistemica valorizza il processo sul prodotto e indaga il contesto all’interno del quale avviene la formazione, le dinamiche interpersonali, i progetti che vengono attivati, i prodotti che ne risultano. Gli strumenti per valutare sono necessariamente vari perché devono indagare aspetti molto diversi tra loro, da quelli culturali a quelli relazionali.[3]
 
I corsi di lingua inglese, soprattutto di case editrici britanniche, facilitano il compito dell’insegnante poiché accompagnano anche i testi della scuola superiore con il Portfolio, un volumetto-diario a sé stante che, presentando domande mirate, guida lo studente nel processo di autovalutazione e di revisione del materiale che ancora necessita di attenzione e studio. Lo spostamento avvenuto in questi ultimi anni dai “programmi ministeriali” agli OSA (obiettivi specifici di apprendimento) – da qualcosa imposto dall’alto a livello nazionale a qualcosa gestito dalla scuola a livello locale – può permettere una maggiore libertà anche nel campo della valutazione. Attraverso vari esperimenti di cooperative learningemerge un possibile metodo in quattro fasi per avviare gli studenti a una pratica di autovalutazione:
 
  1. La prima fase prevede di coinvolgere gli studenti nella definizione dei criteri che saranno usati per valutare le loro prestazioni. Ciò implica necessariamente un processo di negoziazione, poiché né l’adesione a criteri scolastici imposti, né l’adozione delle preferenze degli studenti potrà essere soddisfacente per il sistema scolastico. Tuttavia è comprovato da ricerche sul mondo del lavoro che là dove i dipendenti vengono coinvolti nel processo decisionale sale sia il livello di soddisfazione sia l’impegno nel conseguimento degli scopi prefissati.
  2. La seconda fase prevede che venga insegnato agli studenti come applicare i criterial loro lavoro. Dato che gli obiettivi prefissati non sono solamente scelti dagli studenti, l’insegnante dovrà fornire dei modelli o degli esempi per facilitare la comprensione dell’applicazione dei criteri.
  3. La terza fase prevede un feedback sia da parte dei compagni (peer assessment), sia da parte dell’insegnante sull’autovalutazione dello studente. Le diverse fonti di feedback permettono allo studente di ricalibrare, qualora fosse necessario, la sua autovalutazione.
  4. La quarta fase prevede che l’insegnante aiuti gli allievi a sviluppare obiettivi e piani d’azione produttivi. La parte più difficile dell’accompagnare gli studenti nel processo di apprendimento dell’autovalutazione consiste nell’aiutarli a usare i dati dell’autovalutazione per porsi nuovi obiettivi e nuovi piani d’azione.[4]
 
Personalmente sento di dovermi ancora impratichire in questo processo di accompagnamento, soprattutto per quanto riguarda gli obiettivi scolastici. Paradossalmente mi pare più facile accompagnare qualcuno nel processo di integrazione della personalità che in quello dell’apprendimento della lingua inglese!

[1] http://www.funzioniobiettivo.it/glossadid/valutazione.htm.
[2] Ibidem.
[3] Ibidem.
[4] Tratto da C. Rolheiser, J.A. Ross, “Student self-evaluation: What research says and what practice shows”, Center for Developing & Learning, Toronto, consultabile all’indirizzo http://www.cdl.org/resource-library/articles/self_eval.php.

Coinvolgere gli allievi nella scelta
Imparare a scegliere è una delle lezioni più difficili da apprendere e, nonostante il proliferante consumismo che sembra porci continuamente davanti a scelte – le Nike o le Globe, Chicken McNuggets, Fish Fillet o un Double Cheeseburger? –, è assi difficile educarci alla scelta consapevole. Personalmente ho attraversato periodi della mia vita, anche recentemente e nonostante tutto il lavoro su me stessa fatto in questi anni, in cui non sapevo neanche dire a me stessa che cosa desideravo davvero, non sapevo neppure di desiderare. Per questo cerco di coinvolgere il più possibile i ragazzi nelle scelte che li riguardano.
Quest’anno ho chiesto loro consiglio nella scelta dei libri di testo sia per loro, sia per le future classi. In teoria ciò è previsto da anni: con i decreti delegati i rappresentanti dei genitori e degli studenti sono invitati a esprimere un parere sui testi che l’insegnante adotterà l’anno seguente, ma poiché sono tenuti a partecipare a una scelta che non li coinvolgerà, in quanto i genitori e gli studenti di seconda si esprimono sui libri che saranno adottati nella futura seconda, e così via; e poiché ovviamente si fidano degli insegnanti che scelgono gli strumenti che meglio consentiranno loro di svolgere le lezioni, il tutto in genere si riduce a una presentazione delle future adozioni da parte degli insegnanti e a una presa d’atto da parte dei rappresentanti. Ma quest’anno, appunto, ho chiesto ai ragazzi di collaborare con me alla scelta.
Fra i molti libri proposti dalle case editrici ho selezionato coppie di due testi che ritenevo grosso modo equivalenti, per il corso di lingua, per la civiltà, per la grammatica d’appoggio… e ho chiesto agli allievi, divisi in piccoli gruppi di lavoro, che ogni gruppo si esprimesse sia sui testi che li avrebbero riguardati, sia su quelli che avrebbero eventualmente sostituito i testi da loro in uso, dandone le motivazioni. La scelta dei ragazzi è caduta sui testi che io stessa avrei selezionato e in molti casi per le stesse motivazioni, per questo mi sono chiesta quanto l’inconscio dell’insegnante (come quello del genitore e di tutte le figure di riferimento) influisca sui ragazzi e come educarsi a non gravarli con le nostre aspettative o desideri. Naturalmente può anche essere segno di consonanza di idee, ma nel dubbio per i compiti delle vacanze, in attesa di esplorare meglio questo aspetto appena emerso, darò loro la scelta fra due libri che non generano in me alcuna preferenza: sarà questa una garanzia di maggiore libertà?
È sempre impegnativo, e a volte è anche stancante, il lavoro del ricercatore di autenticità. Per fortuna lo strumento è benedetto dall’Energia che lo attraversa.
OVVERO DOVE STO ANDANDO
Alla fine del De Magistro, Agostino scrive:
Sed ecce iam remitto atque concedo, cum uerba eius auditu, cui nota sunt, accepta fuerint, posse ille esse notum de his rebus quas significant loquentem cogitauisse; num ideo etiam, quod nunc quaeritur, utrum uera dixerit, discit?Arrivati a questo punto, ammetto e concedo che, se qualcuno ha ascoltato parole che gli sono note, può sapere che chi parla aveva in mente proprio le cose significate da queste parole. Ma ora bisogna chiedersi: viene anche a sapere se ha detto cose vere?[1]
Come in tutto ciò che prevede un lavoro esperienziale – come nella vita, insomma – l’invito è a provare su se stessi, con metodo scientifico, la validità delle cose ascoltate. Solo sulla base della propria esperienza diretta si potrà dire se si tratta di “cose vere”. Per parte mia, questo è ciò di cui ho fatto esperienza nei 27 anni in cui, a vario titolo e in vari corsi, ho insegnato (e imparato!). Da brava studentessa, un po’ secchiona, ho ancora tantissimo da imparare. Elenco qui, in ordine sparso, ciò su cui sento che devo lavorare nell’immediato futuro:
1    La gestione dei gruppi. Non sono ancora sufficientemente consapevole delle energie dei gruppi che ho davanti: le avverto, le sento mutare, ma non sono ancora in grado di dirigerle (sempre, o quasi sempre) efficacemente. La situazione migliora quando posso lavorare con gli studenti in cerchio, ma quando, come nella più parte delle lezioni, la formazione è quella classica dell’“uno contro tutti”: insegnante alla cattedra di fronte alla classe, si verificano ancora troppe proiezioni, ed io sono troppo centrata sul mio ruolo.
2     I tipi umani. Dopo molti anni e moltissimi studenti, ogni tanto ho la sensazione di riavere in classe un alunno “già incontrato”: a volte come nel caso di G., magro magro dai capelli ricci, la somiglianza con un suo omonimo di anni prima è quasi solo fisica, in altri è caratteriale, in moltissimi casi è energetica. Per questo ho deciso di approfondire lo studio dei tipi umani come strumento per comprendere meglio i ragazzi, trovare uno stile di insegnamento semi-individualizzato che meglio si adatti ai loro stili di apprendimento, e aiutarli a sviluppare i punti di forza della loro tipologia, integrando le parti carenti.
3     Il rapporto scuola-famiglia. Nei suoi appunti sull’educazione – poi raccolti postumi inEducare l’uomo domani a cura dell’Istituto di Psicosintesi di Firenze (1988) – Assagioli parla del rapporto scuola-famiglia auspicando la presenza e l’interazione di un “gruppo educativo” per ogni ragazzo. Con i decreti delegati del maggio 1974, la legge italiana ha istituzionalizzato la presenza dei genitori nella gestione scolastica, e la mia scuola attende in modo particolare al rapporto con la famiglia. Molti miei colleghi ampliano ulteriormente la disponibilità al colloquio con le famiglie. In futuro vorrei riuscire a immaginare una forma ancora nuova di collaborazione al progetto educativo del singolo ragazzo. In quest’ètà così particolare, dai 14 ai 19 anni, in cui gli adolescenti si staccano progressivamente dalla famiglia e dai suoi modelli, a volte integrandoli in sé, a volte opponendovisi, mi piacerebbe riuscire a immaginare una collaborazione con i genitori per metterci, tutti, al servizio del progetto individuale di crescita del Sé dello studente.
Inoltre, a mano a mano che si approfondiscono le mie conoscenze nell’ambito delle Costellazioni Famigliari, vorrei riuscire a integrare questa pratica, vuoi nella risoluzione di momenti di crisi, vuoi per una migliore comprensione del progetto di vita della persona.
4     Lo “sgonfiamento” del mio ego. Come quel palloncino all’inizio della mia storia di insegnante, vorrei perdere un po’ dell’elio che gonfia il mio ego di DOCENTE, senza perdere il Sole che illumina le giornate scolastiche mie e dei miei allievi. Vorrei portare una nota di luce, calore, gioia e creatività, senza attirare l’attenzione su di me. Vorrei che le “cose” venissero illuminate (sensazioni, emozioni, conoscenze, insight), senza attrarre l’attenzione sulla luce del docente, che rischia di mettere in ombra quella degli allievi. Vorrei imparare a parlare di meno (quasi una contraddizione in termini per un insegnante di scuola superiore) e ascoltare ancora di più.
5     La programmazione. Lavoro molto a livello quasi inconscio: entro in classe, apro il libro, proseguo col programma più o meno “classico”, ed ecco che si presentano spunti di crescita, di introspezione, di autoanalisi, di dialogo… Questo metodo presuppone la mia fiducia in un Sé superiore, il Sé del gruppo formato da me e dalla classe che ho davanti, che dirige le nostre azioni su quello che è utile per noi in quel momento (e in futuro). Si basa anche sull’osservazione, nel corso degli anni, che ciò che ha funzionato meravigliosamente con una data classe, in un dato momento, non riscuote paragonabile risultato con un’altra classe in un altro momento. Tuttavia penso che sarebbe molto utile costruire una sorta di archivio a cui poter attingere negli anni, e a cui altri insegnanti potessero attingere quando lo trovassero utile. Per questo ho in programma di tenere un diario del prossimo anno scolastico, a partire dai compiti delle vacanze assegnati per quest’estate, in modo da poter ricostruire un percorso delineato all’interno di un periodo di tempo preciso. Nel caso l’esperienza si dimostri fruttuosa, potrò proseguire il diario della futura classe prima nei 5 anni di scuola superiore, ed avere così la registrazione del processo che in questi anni di sperimentazione ho intuito si possa attuare.
6    Espansione. Penso di dovermi preparare a condividere le esperienze didattiche-educative con altri insegnanti: progettare corsi di aggiornamento per insegnanti; e gruppi di lavoro formati da insegnanti di diverse discipline per confrontarci sulle possibilità che la sfida della scuola contemporanea ci offre.
7    Scuola totale. Col passare degli anni le mie esperienze con gli studenti si sono dilatate oltre le cinque o sei ore quotidiane in classe. Dai laboratori pomeridiani interclasse, ai viaggi di istruzione, agli incontri fuori dalla scuola, all’aprire la mia casa, nell’intuizione che, nei cinque anni (o poco più) di contatto che ci è dato di avere, ciò che trasmetto loro ha molto più a che fare con ciò che sono io (chi sono io) e chi sono loro, che con i contenuti trasmessi. Grazie agli strumenti tecnologici contemporanei (la Rete, la messaggistica immediata…) abbiamo molte più possibilità di contatto nel corso della giornata e della settimana. Non mi è ancora chiaro come, ma sento una spinta a dilatare i confini dell’esperienza educativa. Confine è qui una parola chiave, poiché se il confine fittizio dei muri scolastici e dell’intervallo di tempo fra i rintocchi delle campanelle è abbondantemente superato, bisogna di volta in volta stabilire i reciproci nuovi confini personali, fisici, emotivi.
8     I have a dream. Questa tesi è nata con l’intento di esplorare le possibilità di crescita individuale in un’ottica psicosintetica seguendo i programmi proposti dalla scuola secondaria superiore per la disciplina della lingua inglese. La mia visione, però, vede una scuola profondamente trasformata nei contenuti, nell’approccio alle varie discipline, e anche nella sua dimensione esteriore. Vedo una scuola, la mia scuola, quella in cui insegno ogni mattina, trasformata nei colori, vedo nelle classi e nei corridoi esposte le opere degli allievi, sento musica echeggiare nelle aule e il cortile, da sala da fumo all’aria aperta, si è trasformato in un giardino curato da studenti, insegnanti, e personale non docente.
Questa scuola è un luogo in cui ognuno ha un posto speciale, un luogo dove si lavora volentieri e dove i conflitti vengono risolti con la cooperazione, non solo con la mediazione. È un centro di crescita personale, dove ci si educa reciprocamente allaBellezza e alla Pace. Ed è una scuola pubblica!

[1] Sant’Agostino, Il maestro, tr. it. di Massimo Parodi e Cristina Trovò, BUR 1996 pp. 144-145.

Opere di Roberto Assagioli:
Psicosintesi: per l’armonia della vita, Astrolabio 1999
Principi e metodi della Psicosintesi terapeutica, Astrolabio 1973
L’atto di volontà, Astrolabio 1977
Lo sviluppo transpersonale, Astrolabio 1988
Comprendere la Psicosintesi. Guida alla lettura dei termini psicosintetici, a cura di M. Macchia, Astrolabio 1991
I tipi umani, Ed. Istituto di Psicosintesi
Come si imparano le lingue con l’inconscio, Ed.Istituto di Psicosintesi
Medicina Psicosomatica e biopsicosintesiEd.Istituto di Psicosintesi
Per vivere meglio,Ed.Istituto di Psicosintesi
Modi e ritmi della formazione psicologicaEd.Istituto di Psicosintesi
I tipi umaniEd.Istituto di Psicosintesi
Equilibramento e sintesi degli oppostiEd.Istituto di Psicosintesi 
Educazione dei giovani particolarmente dotatiEd.Istituto di Psicosintesi
Medicina Psicosomatica e Bio-psicosintesi Ed.Istituto di Psicosintesi
La Psicoterapia, Medicina psicosomaticaEd.Istituto di Psicosintesi
Educare l’uomo domaniEd.Istituto di Psicosintesi
Il conflitto fra le generazioniEd.Istituto di Psicosintesi
Concetti della psicologia umanistica, a cura di S.A.TilliEd.Istituto di Psicosintesi 
Psicologia dinamica e PsicosintesiEd.Istituto di Psicosintesi
La Psicologia e l’arte di vivereEd.Istituto di Psicosintesi 
I conflitti psichiciEd.Istituto di Psicosintesi
La psicologia e la scienza della sessualitàEd.Istituto di Psicosintesi 
Come si imparano le lingue con l’inconscioEd.Istituto di Psicosintesi
Opere su Roberto Assagioli:
A. BERTI, Roberto Assagioli: profilo biografico degli anni di , Ed. Istituto di Psicosintesi 1987
P. GIOVETTI, Roberto Assagioli. La vita e l’opera del fondatore della Psicosintesi,
Mediterranee 1995
M. MACCHIA, Roberto Assagioli: la Psicosintesi, Nomina 2000
 
Teoria e pratica della psicosintesi (in italiano):
A. ALBERTI, Il Sè ritrovato, Pagnini 1994
A. ALBERTI, Il bimbo interiore, Pagnini 2000
A. ALBERTI, L’uomo che soffre, l’uomo che cura, Pagnini 1997
A. BOCCONI – P. LACERNA, Il Matto e il Mondo, Nomina 2001
L. BOGGIO G., Psicosintesi e meditazione, Mediterranee 1988
P. M. BONACINA, L’uomo Stellare, Pagnini 1998
D. DE PAOLIS, L’io e le sue maschere. Il lavoro sulle subpersonalità in Psicosintesi, Ed. Istituto di Psicosintesi
P. FERRUCCI, Crescere. Teoria e pratica della Psicosintesi, Astrolabio 1981
P. FERRUCCI, Esperienze delle vette, Astrolabio 1989
P. FERRUCCI, Introduzione alla Psicosintesi. Idee e strumenti per la crescita personale, 
Mediterranee 1994
W. PARFITT, La Psicosintesi – Una guida all’autorealizzazione, Xenia 1990
M. ROSSELLI, (a cura di) I nuovi paradigmi della psicologia. Il cammino della Psicosintesi,
Cittadella 1992
Per i testi adottati nella pratica scolastica si rimanda alle note a ogni capitolo.