Circle time
Il Circle time è uno degli strumenti più preziosi di cui dispongo. I ragazzi conservano memoria del circle time dell’asilo quando, a inizio mattinata, sedevano in cerchio e a turno raccontavano liberamente qualcosa alla maestra: l’accaduto del giorno precedente, pensieri estemporanei, dubbi…
Io l’ho scoperto soltanto frequentando i corsi di counseling. La circolarità riporta ad Artù e ai Cavalieri della Tavola Rotonda, dove nessuno è il primo; l’insegnante è inserito all’interno del cerchio, non si trova sulla predella alla cattedra di fronte alla classe, ma seduto alla stessa altezza dei ragazzi e nella medesima posizione: è più facile così non essere il bersaglio delle proiezioni genitoriali o di altri insegnanti che i ragazzi possono mettere inconsciamente in atto. Per me è inoltre più semplice uscire dal ruolo di docente e assumere quello di focalizzatore del gruppo. Durante quest’ora spostiamo i banchi lungo le pareti della classe e disponiamo le sedie in cerchio, non ci sono posti fissi, gli studenti cambiano postazione di settimana in settimana, e di volta in volta io prendo una posizione diversa all’interno del cerchio.
Il circle time è un tempo sacro in cui non vengono assegnati voti, né espressi giudizi sui presenti, anche se, occasionalmente durante i giochi, possono venire valutate le creazioni individuali e di gruppo. In genere dedico un’ora alla settimana ad attività “libere” di questo genere (che pare poco ma è moltissimo poiché corrisponde al 33% del tempo classe in prima, terza e quarta e il 25% in seconda e quinta), e mi sono imposta di non programmare mai verifiche scritte o orali in questo spazio. Quando presento questa attività ai genitori nei consigli di classe la definisco “l’ora di conversazione” e ciò è vero poiché i ragazzi sono tenuti ad esprimersi in inglese, per quanto occasionalmente è possibile utilizzare l’italiano quando emergono dei problemi relazionali nel gruppo e lo strumento della lingua inglese non è adeguato ad esprimere pienamente il vissuto.
Il circle time può avere moltissime applicazioni ed è uno strumento trasversale per lo sviluppo non soltanto di varie tematiche, ma anche di altri strumenti. Una delle applicazioni più semplici consiste nel fornire un tema. Io mi avvalgo spesso del volume di Duccio Demetrio, Il gioco della vita[1]; il libro presenta “trenta proposte per il piacere di raccontarsi”, trenta esercizi per, nelle parole dell’autore, rievocare (richiamare dalla penombra dell’oblio cose, fatti, sensazioni, figure),ricordare (ritrovare quelle particolari rievocazioni più significative di altre per le emozioni, gli stati d’animo e affettivi che ci fanno rivivere), rimembrare (rimettere insieme rievocazioni e ricordi per dare loro una forma, un disegno, un’architettura)[2]. Uno dei temi più rivelatori è quello del primo ricordo. Avevo già avuto modo di notare nella mia psicoterapia personale e negli studi[3] quanto esso possa essere utile per evidenziare ciò che affligge il paziente; nella mia pratica con i ragazzi, ho scoperto che spesso porta in luce una ferita infantile che ha rilevanza sulle difficoltà che l’adolescente si trova a vivere nel momento presente. Nel caso di studenti “difficili”, il racconto del primo ricordo mi ha aperto uno squarcio sulla sofferenza personale che portavano con sé nella vita scolastica. Ad esempio posso citare il caso di A., terzogenito dopo due sorelle molto più grandi di lui e seguito a distanza di tre anni dall’ultimogenita, ragazzo afflitto da patologia caratteriale non meglio identificata ma sofferta in primis da lui e poi dalla famiglia, dalla classe e dai docenti, con scoppi di violenza e difficoltà nel controllo delle proprie emozioni. Il primo ricordo lo vedeva piccolissimo muovere i primi passi e dirigersi verso il padre con le braccine sollevate per farsi prendere in braccio. Il padre, nel ricordo, gli diceva: “Ora che sai camminare non ti prenderò più in braccio.” Nei tre anni in cui A. è stato mio allievo, il padre, un signore già in pensione, anziano se confrontato con i genitori dei compagni di classe, è venuto a parlarmi una volta soltanto (la madre non è mai venuta, ma l’ho incontrata quest’anno ai colloqui per l’ultimogenita): non abbiamo avuto un vero scambio, un vero incontro; sostanzialmente ho avuto la sensazione che volesse esprimermi la preoccupazione per il difficile carattere del figlio, e che qualcosa nelle mie risposte debba averlo tranquillizzato al punto da non cercare ulteriori colloqui. L’urgenza che il figlio fosse in grado di “camminare con le proprie gambe” era avvertibile nel comportamento paterno.
Se quest’istanza è ovviamente naturale e sana nel genitore dell’adolescente (ma l’urgenza non lo è neppure nei caso di figli adolescenti), è comprensibile però come possa creare problemi al bambino quando tale tematica si presenti troppo presto: il primo ricordo di L., fratello maggiore di pochissimi mesi, risale al giorno in cui vide la sorellina gattonare; corse a chiamare la mamma nella speranza che questa sgridasse la bambina, e rimase attonito quando la mamma dimostrò gioia e prese a complimentarsi con la piccola. Che cosa ci dice questo ricordo? Che il gattonare era stato scoraggiato in L., insieme ad altri comportamenti da “bambino piccolo”, ma lui aveva solo 11 mesi più della sorellina, e dunque era un bambino piccolo, improvvisamente trasformato dalla nuova nascita nel big brother, il fratellone. E che cosa ci dice l’attenzione a questi particolari da parte dell’insegnante? Ci dice che a sua volta è una primogenita, e che questa tematica tocca un nervo per lunghissimi anni scoperto e, per fortuna sua e degli studenti che ora è in grado di accompagnare in questo specifico cammino, ormai sanato.
Il tema della paura nel veder mancare il supporto del genitore ricorre spesso nei ricordi che si riferiscono all’infanzia: V. ricorda il primo momento in cui ha pedalato da sola in bicicletta. Voltandosi indietro, e scorgendo il padre lontano, è caduta. Quanto spesso ci scordiamo che gli adolescenti, nell’ansia di andare, vorrebbero vederci ancora vicini quando scelgono di voltarsi a cercarci! In quell’occasione dal ricordo di V. era nata una discussione sui maestri, i veri maestri e quelli falsi, ed io ne avevo approfittato per raccontare la storia di Milarepa e il falso maestro. Nel libro di Osho[4], la storia è collegata alla carta dell’Autenticità, così un ruzzolone in bicicletta è stato l’occasione per un percorso di riflessione che ci ha portati dall’affidarci al maestro/genitore/insegnate che ci offre gli strumenti per proseguire nel nostro cammino, al trovare in noi stessi la forza dell’autenticità che trasforma ogni sentiero nel Sentiero.
Tra le attività che abbiamo svolto durante il circle time, voglio qui citare quella ispirata dalla mostra Africa, capolavori di un continente, tenutasi a Torino presso la GAM, Galleria d’Arte Moderna, inizialmente prevista dal 2 ottobre 2003 al 15 febbraio 2004 e poi prorogata ulteriormente per il grande successo di pubblico[5].
 
Quell’anno avevo ereditato una classe nuova, una terza con sperimentazione del Piano Nazionale dell’Informatica[6]. Tra gli allievi c’era F., la mia perla nera, una ragazza nata in Italia da famiglia congolese. Ho pensato che la mostra fosse una splendida occasione per collegare insieme diversi discorsi: le radici famigliari, lo storytelling che fa parte del programma di letteratura della terza, il lavoro di gruppo, la valutazione e l’autovalutazione…, così ho investito nell’acquisto della collezione completa delle cartoline della mostra: una trentina di riproduzioni dei capolavori esposti.
      
Avevamo già lavorato con le immagini, quindi i ragazzi non avevano bisogno di una particolare introduzione all’attività. Ho distribuito casualmente le cartoline, una a ciascuno, e ho chiesto di osservarle per alcuni minuti e poi a turno di condividere ciò che l’immagine ispirava loro. Terminato il giro di condivisione, ho chiesto di sciogliere il cerchio e di formare gruppetti di 3 o 4 persone. Con il possibile aiuto per tutti delle due uniche raffigurazioni di animali a nostra disposizione – il coccodrillo/serpente e il leopardo – ho chiesto di inventare una storia che avesse per protagonisti i personaggi delle cartoline in loro possesso.
Nella lezione seguente, dedicata alla letteratura, abbiamo affrontato l’argomento della narrazione di storie, lo storytelling, completando il libro di testo con materiale tratto dagli scritti del filosofo tedesco Walter Benjamin,[7] in modo da avere anche un panorama teorico e storico in lingua inglese per l’attività che ci apprestavamo a condurre. Infatti per l’incontro successivo di circle time avevo programmato uno storytelling contest, una gara di contastorie: il cerchio si sarebbe aperto e avremmo assunto una posizione a ferro di cavallo: sul palcoscenico immaginario così creato, i gruppi avrebbero raccontato ai compagni le storie ideate, dandone anche una rappresentazione, se lo desideravano; poi tutta la classe avrebbe votato ogni storia con un punteggio da 1 a 3:
1.                 OK!
2.                 I LIKE IT!!
3.                 I LIKE IT VERY MUCH!!!
tenendo conto del contenuto della storia e dell’abilità del narratore (o dei narratori/attori) a trasmetterla. I voti di preferenza erano un’ulteriore occasione di praticare l’arte della valutazione e autovalutazione. E anche se, comprensibilmente, vi è stata un’abbondanza di 3 punti quando si è trattato di valutare la propria performance, non è mancato chi invece ha attribuito al proprio gruppo un 1, paragonandolo alle esibizioni dei compagni. Ha vinto il gruppo che ha maggiormente teatralizzato la sua storia.
Il premio consisteva nel doppio CD dal titolo The Very Best of Africa appena pubblicato dalla casa discografica Nascente. Per la cerimonia di premiazione abbiamo spostato le sedie creando uno spazio libero al centro della classe e ci siamo messi a ballare sulle note della prima canzone dell’album dedicato all’alba (i due CD si intitolano infatti Sunrise e Sunset): “Didi” di Khaled (Algeria) . I ragazzi mi hanno poi chiesto di poter ballare le musiche che avevano con loro, e questo ha dato in seguito l’occasione di paragonare la “loro” musica alla musica tribale e di approfondire il discorso dell’“appartenenza”: al gruppo, alla “tribù”, e di come nell’adolescenza la tribù famigliare con le sue regole venga sostituita dalle tribù degli amici, o semplicemente dei “pari”, con le loro regole e i loro riti.
  
Lo sguardo sbigottito di un collega di Lettere (diplomato al Conservatorio) che, richiamato dalla musica, aveva bussato alla porta per scoprire che cosa stesse succedendo nella mia classe, mi ha indotto ad illustrargli il progetto. Questo incontro estemporaneo ci ha portato a una collaborazione sui progetti che coinvolgono la musica, e il primo risultato di questa collaborazione vedrà, il prossimo anno scolastico, l’inaugurazione nel nostro liceo di corsi pomeridiani di strumento e formazione musicale tenuti da un pool formato da esperti esterni,docenti e allievi della scuola. Un grande passo avanti, nato in una mattina di inverno dalla voglia di abbandonare sedie e banchi per muovere il corpo e lo spirito al ritmo della musica.

[1] Duccio Demetrio, Il gioco della vita. Kit autobiografico, Guerini e associati, 1997.
[2] op. cit. pag. 18.
[3] fra i molti articoli apparsi, cfr: Rita Reschiotto, “Il primo ricordo come metafora del processo psichico”, Polarità, 1993, Vo. 7, No 3, 425-431.
[4] “Milarepa and the false teacher”, Osho, Transformation TarotAutenticity
[…] It is reported about one great mystic, Milarepa: When he went to his master in Tibethe was so humble, so pure, so authentic, that other disciples became jealous of him. It was certain that he would be the successor. And of course there was politics, so they tried to kill him.
One day they said to him, “If you really believe in the master, can you jump from the hill? If you really believe, if the trust is there, then nothing, no harm, is going to happen.” And Milarepa jumped without even hesitating for a single moment. They rushed down… because it was almost a three-thousand-foot deep valley. They went down to find his scattered bones – but he was sitting there in a lotus posture, very happy, tremendously happy. He opened his eyes and said, “You are right, trust protects.”
They thought it must be some coincidence, so when a house was on fire one day they told him, “If you love your master and you trust, you can go in.” He rushed in to save the woman and the child who were left inside. He rushed in, and the fire was so great that the other disciples were hoping that he would die–but when he came back out with the woman and child, he was not burned at all. And he became more and more radiant, because the trust….
One day they were going somewhere, they were to cross a river, and they told him, “You need not go in the boat. You have such great trust, you can walk on the river”– and he walked.
That was the first time the master saw him. He was not aware that Milarepa had been told to jump into the valley and told to go into the burning house. But that time he was there on the bank and he saw Milarepa walking on the water and he said, “What are you doing? It is impossible!”
And Milarepa said, “Not impossible at all! I am doing it by your power, sir.”
Now the Master thought, “If my name and my power can do this to this ignorant, stupid man…. I have never tried it myself,”…so he tried. He drowned. Nothing has been heard about him after that.
[5] Cinque mesi per scoprire il vero spirito dell’arte africana, ovvero di quella che venne riduttivamente battezzata, nei primi anni del Novecento, come “arte primitiva” o “art nègre”. L’occasione di questa ridefinizione e rivalutazione della produzione artistica africana, dal primo millennio prima di Cristo alla fine del secolo scorso, ci è offerta dalla mostra “Africa. Capolavori da un continente”, allestita presso la Galleria Civica d’Arte Moderna di Torino, curata da Ezio Bassani, uno dei principali esperti dell’arte africana il cui impegno nel settore dura da oltre quarant’anni, e da un comitato scientifico formato dai responsabili delle collezioni di musei internazionali quali il Metropolitan di New York, ilLouvre di Parigi, il Museo di Tervuren, il Kunsthistorisches di Vienna e il Museo Nazionale di Lagos.
L’esposizione è suddivisa in quattro sezioni ognuna delle quali è finalizzata ad individuare l’immensa ricchezza visiva e plastica degli imperi africani subsahariani dal periodo precoloniale a quello postcoloniale, momento da cui inizia una produzione di oggetti artigianali destinati all’esportazione e modellati sul gusto europeo. Determinante è, inoltre, la parte dedicata a svelare lo stretto rapporto tra le antiche sculture africane e le opere degli artisti delle Avanguardie del primo Novecento quali BrancusiMatisseModiglianiPicasso e altri maestri del secolo scorso.
(Loredana Carena, http://www.scanner.it/arte/africa2461.php).
[6] Cfr. il cap. 4. Il percorso
[7] Experience which is passed on from mouth to mouth is the source from which all storytellers have drawn. And among those who have written down the tales, it is the great ones whose written version differs least from the speech of the many nameless storytellers. Incidentally, among the last named there are two groups which, to be sure, overlap in many ways. And the figure of the storyteller gets its full corporeality only for the one who can picture them both. “When someone goes on a trip, he has something to tell about,” goes the German saying, and people imagine the storyteller as someone who has come from afar. But they enjoy no less listening to the man who has stayed at home, making an honest living, and who knows the local tales and traditions. If one wants to picture these two groups through their archaic representatives, one is embodied in the resident tiller of the soil, and the other in the trading seaman. Indeed, each sphere of life has, as it were, produced its own tribe of storytellers. Each of these tribes preserves some of its characteristics centuries later. Thus, among nineteenth-century German storytellers, writers like Hebel and Gotthelf stem from the first tribe, writers like Sealsfield and Gerstäcker from the second. With these tribes, however, as stated above, it is only a matter of basic types. The actual extension of the realm of storytelling in its full historical breadth is inconceivable without the most intimate interpenetration of these two archaic types. Such an interpenetration was achieved particularly by the Middle Ages in their trade structure. The resident master craftsman and the traveling journeymen worked together in the same rooms; and every master had been a traveling journeyman before he settled down in his home town or somewhere else. If peasants and seamen were past masters of storytelling, the artisan class was its university. In it was combined the lore of faraway places, such as a much-traveled man brings home, with the lore of the past, as it best reveals itself to natives of a place. […] Walter Benjamin, Illuminations, Fontana Press 1992.